Ciarlando allegramente di... #11
Creato il 20 marzo 2015 da Nereia
@LibrAngoloAcuto
Ok, dunque. Mi è servito tanto coraggio per decidermi a scrivere questo post, ma sono riuscita a raccoglierne un po', l'ho messo insieme, ed eccomi qua. Ho una sfiga colossale. Non lo dico come le protagoniste degli young adult che dicono di essere sfigate e non lo sono, che dicono di essere dei sacchi di juta ambulanti e poi sono delle fighe impossibili, che dicono di essere imbranate solo perché inciampano a causa dei marciapiedi sconnessi di Roma. No, dico che ho una sfiga colossale perché è così. Ultimamente, almeno. Non che normalmente sia proprio la diretta discendente di Gastone Paperone, anzi. Però diciamo che in questo periodo la sfiga si è intensificata. Così, tra le altre cose di cui non sto qui a raccontarvi, da gennaio mi è capitato di leggere solo libri brutti o comunque da me considerati "meh", ad esclusione de Il commesso di Bernard Malamud – che però non vale perché l'ho iniziato a dicembre – e La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia. Tutto il resto sarebbe stato meglio se non lo avessi letto. E con questo mi riferisco anche ai due libri di cui vi parlerò in questa puntata di Ciarlando allegramente di...Sapete della storia del barattolo dei to be read, no? Un'abitudine tanto in voga nella parte anglosassone del mondo. Sebbene in molti mi abbiano detto che è un'idiozia, io la trovo invece un'ottima occasione per leggere libri che, magari, campeggiano nella mia libreria da diversi anni e che, per un motivo o per un altro, non mi viene mai in mente di leggere – copertina poco invitante, dimenticanza, altro. Non sono stata particolamente fortunata nemmeno con la bottiglia/barattolo dei to be read dato che il primo bigliettino estratto è stato Library of the dead di Glenn Cooper, libro ottenuto attraverso uno scambio su Bookmooch – per chi sono sapesse cosa è, s'informasse – qualche mese fa. Manco c'era arrivato al lusso di uno scaffale, s'era fermato al tavolinetto basso. Vabbè.
La domanda, com'è legittimo, sorge spontanea: perché ho deciso di leggere questo libro? Ho deciso, sarò onesta, dopo averci molto pensato. Diverse persone me ne hanno parlato discretamente, sebbene si tratti di un bestseller. Così, spinta dalla curiosità, ho deciso che lo avrei letto solo se lo avessi trovato al mercatino o in biblioteca. Pare, però, che sia ancora uno dei libri più letti anche dopo diversi anni – ridendo è scherzando si tratta di un libro del 2009 – e, quindi, difficile da reperire nella biblioteca vicino casa senza mettersi in fila. E io, con la cosa che non inseguo i libri che mi interessano ma non troppo, sapevo che mai lo avrei prenotato. Così, lo vedo in lingua in scambio su Bookmooch e taaac, preso. Vuoi che si trattasse del primo libro per adulti che ho letto in inglese (gli altri erano più che altro per adolescenti), vuoi che il thriller storico mi interessi relativamente, vuoi che nutrissi un certo scetticismo verso il fatto che si tratta pur sempre di un bestseller ma... A me non è che sia proprio piaciuto.Trovo l'idea di base, quella della biblioteca appunto, molto interessante e anche lo svolgersi della vicenda abbastanza intelligente. Il problema è che, purtroppo, Glenn Cooper non è riuscito a farmi incuriosire. Non ho trovato alcuna traccia del thriller, né del giallo in verità. Non avevo alcuna curiosità, né mi domandavo come mai le persone morissero né perché, prima di lasciarci le penne, ricevessero una cartolina con la loro data di morte. Verso la metà del romanzo ho intuito chi potesse essere responsabile anche se non ho centrato il modo – ma, d'altronde, mica l'ho scritto io 'sto libro (SPOILER avevo capito che Mark e la sua Area 51 c'entrassero in qualche modo, semplicemente però credevo che, nei sotterranei dell'Area 51, ci tenessero altri ammanuensi a fare lo stesso mestiere, magari dotati di Ipad, così da non morire sfiniti dopo aver scritto h 24 per tutta la loro vita). Quando l'avanzare delle pagine mi ha confermato che avevo ragione – troppe puntate di CSI viste durante l'adolescenza – ho perso quel minimo di interesse che mi aveva spinta fino a lì. Di tutto il resto non mi è fregato nulla, ho solo contato le pagine per arrivare alla fine. Interessante, anche, che Glenn Cooper abbia scelto di mostrarci l'America del 2009 – con tutti i suoi personaggi – e il prima dell'anno 1000 in Britannia per metterci al corrente della nascita e, in un certo senso, dell'evolversi della biblioteca. Ho trovato superflue, invece, le parentesi sul passato che includevano Churchill, ad esempio, e avrei cercato di rendere il tutto leggermente più dinamico ma, lo ribadisco, di thriller storici non ne capisco una fava, quindi la mia opinione è praticamente quella di una profana. Sappiate che con Idelfonso Falcones e il suo La cattedrale del mare – altro romanzo storico al quale mi sono approcciata – non è finita molto bene. Quindi, ecco, come dire... Probabilmente il problema sono io. A ogni modo, trovo che Library of the dead sia leggermente sopravvalutato, sebbene Will – il detective – sia un personaggio che ho trovato simpatico e, in un certo qual senso, accattivante. Peccato, però, per la presenza di un paio di cliché che io ho di certo notato perché leggevo il libro come se lo stessi analizzando al microscopio ma che, sono sicura, chi lo ha apprezzato non ha notato. Will è un po' il prototipo del belloccio di mezza età, con matrimonio fallito alle spalle, dalla scorza dura ma animo alla fin fine tenero che, infatti, trova attraente Nancy, la partner dell'età della figlia (primo cliché). Ma vabbè, direte voi, mo' uno in un libro non può mai mettere uno di cinquant'anni che si innamora della venti/trentenne? Eh, c'avete ragione. Diventa un cliché, però, quando si svolge proprio come il cliché, soprattutto se lui comincia a trovarla attraente quando lei si mette a dieta. Essù, dai eh. Insomma, niente altro da dire. Un romanzo da ombrellone, tralasciabile.
Veniamo adesso alla lettura che più ha lasciata perplessa da gennaio a oggi (anche se, in verità, ce ne sarebbe pure un'altra che vabbè, tralasciamo): Una vita intera di Robert Seethaler. Lo so, io se non faccio i post lunghi dei km non sono contenta. Chi se ne frega della web usability 2.0, no?
Perdonate la brutta immagine di copertina, tutta sgranata, ma il libro è in pubblicazione e non ne ho trovata una migliore.Ammetto, ahimé, l'ignoranza: non conoscevo il signor Robert Seethaler, già autore di Il tabaccaio di Vienna – uscito da poco tra l'altro – che pare abbia un dicreto successo in Germania. Insomma, che dire. Una vita intera è la storia di Andreas Egger, un uomo nato e cresciuto in mezzo alle montagne che non possiede alcuna qualità, né caratteriale né professionale. Non ha mai sorriso e non ha mai esultato, nemmeno da bambino. L'autore ci dice che ha però amato Marie, unica donna della sua lunga vita. Si tratta di un romanzo breve (brevissimo, per la verità) che segue Andreas Egger e ce ne racconta la vita, per sommi capi e con un linguaggio semplice. Persino troppo semplice, per i miei gusti. Una vita che, seppure aveva veramente tanto da raccontare, viene presentata in 160 pagine nemmeno e senza che comunichi molto al lettore. Mi trovo seriamente in difficoltà, perché non so da dove iniziare per dire qualcosa di vagamente sensato che esprima il mio parere. Ho terminato la lettura e la prima cosa che ho pensato chiudendo il libro è stata: "Sì, tutto molto bello, ma quindi?". Probabilmente mi è sfuggito qualcosa, forse non sono stata in grado di capire il messaggio che Seethaler voleva trasmettermi. Non so, a me sembra anche che la quarta di copertina sia fin troppo romanzata rispetto al libro stesso, completamente diversa da ciò che invece il libro narra. Niente, non riesco a dire niente altro se non che l'ho trovato tremendamente piatto. A volte, e questo ne è l'esempio lampante, la poesia dello stile, le descrizioni suggestive dei paesaggi e la scelta coraggiosa della struttura narrativa (escludere quasi del tutto i dialoghi) non sono abbastanza. Se ci fosse stata una storia, forse, avrebbe stuzzicato il mio interesse.
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