Regia: Roman Polanski
Principali interpreti: Jack Nicholson, Faye Dunaway, John Huston, Perry Lopez, John Hillerman, Darrell Zwerling, Diane Ladd, Roy Jenson, Roman Polanski, Richard Bakalyan, Joe Mantell, Burt Young, Bruce Glover, Dick Bakalyan, Nandu Hinds, James O’Rear, James Hong – 131 minuti – USA 1974.
Dedico questa recensione agli appassionati cineamatori che a Canegrate (Milano) hanno fondato un cineforum. Essi, dopo avermi “scovata su Internet”, come mi scrivono, mi hanno molto amabilmente invitata in qualità di esperta (e li ringrazio della fiducia!) per presentare qualche film, a mia scelta, fra quelli previsti per la proiezione del giovedì sera, dal 2 luglio al 5 di novembre, come viene spiegato QUI, dove troverete ogni notizia in merito. Chinatown sarà proiettata la sera del 24 di settembre. Spero che la mia recensione possa essere loro di qualche utilità.
Come nasce il film
Polanski era a Roma (1971) quando ricevette una telefonata da Hollywood: l’amico Jack Nicholson (che sarà il futuro splendido detective J.J. Gittes di questa pellicola) lo informava di aver finalmente trovato un film in cui avrebbero potuto lavorare insieme, come entrambi desideravano da tempo: aveva tra le mani una voluminosa sceneggiatura che gli sembrava proprio quella giusta, firmata da Robert Towne e intitolata Chinatown.
Poco dopo il regista fu chiamato anche da un importante dirigente della Paramount, Bob Evans, che gli proponeva di leggere quello stesso script, anche a suo parere molto interessante (d’altra parte Towne era uno scrittore promettente), dicendosi disposto ad assumersi l’impegno di produrre il film purché a dirigerlo fosse lui, regista europeo abituato a vedere con occhi da europeo gli Stati Uniti.
Il regista* aveva perciò letto quel testo, ricavandone l’impressione di un buon intreccio, sebbene un po’ prolisso e reso assai discutibile da un finale troppo edulcorato, cosicché aveva preteso che, se si voleva davvero far nascere il film, egli potesse procedere a una revisione completa della sceneggiatura insieme allo stesso Towne.
E’ cosa nota che le difficoltà più grandi, prima delle riprese, furono generate proprio dai contrasti fra Towne e Polanski, che alla fine aveva ottenuto di eliminare l’eccesso di personaggi secondari e che in seguito avrebbe riscritto da solo, cancellandone il convenzionale lieto fine, l’ultima parte, trasformandola nella tragedia inaspettata e dolorosa, ai limiti dell’assurdo, che tutti conosciamo e che conferisce al film un senso più originale, ponendo fine a un certo tipo di noir e aprendo prospettive più ampie al cinema di detection.
Un noir molto diverso dagli altri
Al di là di alcune somiglianze abbastanza esterne, infatti, Chinatown non può essere collocato nella scia dei vecchi noir, che nel corso degli anni ’40 si erano ispirati con grande successo ai romanzi di Chandler. Era passato molto tempo da allora: una guerra mondiale, il muro di Berlino, l’assassinio di Kennedy, le sorti incertissime della guerra del Vietnam erano sufficienti a capire che era finito il momento dei detective alla Humphrey Bogart, col suo trench elegante, con i suoi modi raffinati, con la sua fama di rubacuori, romanticamente convinto che molti tesori misteriosi, per impadronirsi dei quali gli uomini entrano in una logica delittuosa, siano della stessa materia di cui sono fatti i sogni**
I misteri, nel mondo in cui Polanski si muove e fa muovere personaggi di Chinatown, sono assai più prosaicamente fatti di royalties, di affari, di banche e di speculazioni spietate (magari intorno all’acqua, elemento vitale e perciò ben più prezioso degli oggetti tempestati di diamanti), che sostanziano materialmente i “sogni” di personaggi tutt’altro che romantici, uomini senza scrupoli e senza coscienza, nel film identificati con Noah Cross (interpretato da un “malvagio” John Huston con grande classe e con molta intelligenza), il cui enorme potere corruttivo gli permette di comprare proprio tutti: dagli sprovveduti anziani agricoltori, alla polizia, alla magistratura, ai politici. Il confronto con questo esagerato potere non potrà ammettere alcun lieto fine: ne usciranno sconfitte, prima di tutto, le persone più fragili e tenere, come la figlia di Noah, Evelyn Cross (una fascinosa e misteriosa Faye Dunaway), che nel film è il dolente personaggio della vedova Mulwray, oltraggiata e umiliata dal padre incestuoso e indegno, o come la giovane e innocente Catherine, sua figlia. Non possono che esserne schiacciati anche gli onesti, coloro che si guadagnano la vita avendo a cuore esclusivamente il loro lavoro, fatto bene e con dignità, come l’ingegnere Hollis Mulwray, alto dirigente del dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica di Los Angeles, assassinato per aver scoperto una speculazione colossale ai danni dei cittadini, o come Gittes, il detective che, pur non proponendosi lo scontro col potentissimo Noah, non potrà evitarlo, nel tentativo di salvare almeno il proprio lavoro scrupoloso di attento osservatore-fotografo della realtà per conto dei clienti che per questo lo pagano.
Lo sfondo storico del film e il paesaggio
Lo sfondo del film è quello, storicamente reale, della grande sete californiana alla fine degli anni ’30, quando numerosi furono gli episodi di una “guerra per l’acqua” che fece molte vittime, poiché divenne ben presto una guerra per il controllo di una risorsa naturale preziosissima, indispensabile non soltanto agli usi quotidiani degli abitanti di Los Angeles, ma anche alle attività che agricoltori e allevatori svolgevano negli ampi territori prossimi all’Arizona: una irrinunciabile risorsa per la vita. Quel tempo lontano emerge grazie alle straordinarie immagini che lo restituiscono agli spettatori: le case della Los Angeles di allora, i suoi poco efficienti impiegati pubblici, le auto di quell’epoca, nonché un modo di vestire, di pettinarsi, di truccarsi, di abitare che il regista presenta nelle scene del film con accuratissima e quasi filologica precisione. Lo sfondo paesaggistico dell’insieme è, ovviamente, però, quello dei grandi spazi del paesaggio arido e deserto della California, che richiama alla memoria quello del western classico, nonché il film famoso diretto da John Huston nel 1960, Gli spostati, che già evidenziava la crisi di quel mondo mitico. Non a caso è proprio John Huston, il grande regista prestato alla recitazione, l’interprete più celebre di Chinatown (insieme a Jack Nicholson – Gittes, suo acerrimo nemico), colui che incarna con la sua presenza l’altro aspetto del cinema mitico americano del quale Chinatown sanziona la fine. Si insinua, a questo punto, mi pare, una corrispondenza meno evidente, ma certamente presente, fra Gittes e Polanski, a sua volta osservatore- fotografo di una realtà che vorrebbe evitare ma che gli si impone con la sua forza dirompente, la stessa che cercherà in futuro di limitarne la libertà***. Che si tratti degli immensi spazi dei deserti o dell’oceano, o di quelli ridotti delle strade di Los Angeles o degli interni delle case, la visione del film ci lascia una sensazione claustrofobica, a cui la regia di Polanski ci indirizza consapevolmente, attraverso l’uso dall’alto della macchina da presa che schiaccia i personaggi in spazi sempre più stretti, indicandoci in questo modo i limiti del loro agire e l’impossibilità di ogni fuga, In questo modo il geniale regista introduce nel noir il proprio pessimismo, molto europeo certamente, sul futuro senza prospettive degli uomini, schiacciati dal potere e impotenti ad arginarlo.
___________
*avrebbe preferito tenersi lontano dai luoghi che erano stati teatro due anni prima del feroce massacro in cui aveva perso la vita Sharon Tate, la moglie amata, all’ottavo mese di gravidanza
**Sono le parole, desunte da Shakespeare (La tempesta), con cui Humphrey Bogart conclude Il mistero del falco, il grande film diretto da John Huston (1941).
***I guai giudiziari del regista, che testimoniano una pervicacia persecutoria singolare nei suoi confronti, anche dopo quarant’anni dai fatti che gli vengono imputati, cominciarono dopo che venne girato questo film, ciò che non sembra una pura coincidenza!
Angela Laugier