Cinema: da Avatar a Prometheus, la marcia più lunga del Real 3D.

Creato il 02 giugno 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

 

 

 

 

 

 

 

 

di Rina Brundu. Ridley Scott è tornato! È tornato con Prometheus (2012) il blockbuster sci-fi interpretato tra gli altri da Noomi Rapace, Michael Fassbender, Guy Pearce, Idris Elba, Logan Marshall-Green e Charlize Theron. Prometheus è arrivato ieri nelle sale cinematografiche irlandesi, in occasione del Bank Holiday di Giugno, e sono andata a vederlo. Due settimane fa, turandomi un poco il naso, avevo visto The Avengers (2012) di Joss Whedon ed era quindi necessario portare a termine il discorso, quello iniziato due anni fa dopo l’arrivo di Avatar.

“Mai prima della visione di AVATAR (2009) di James Cameron in 3D, mi era capitato di lasciare una sala cinematografica con la certezza di avere vissuto… un’esperienza”(1), scrissi, allora, quella sera stessa, tornando a casa dopo la visione del film. A mio modo forse vedevo che il colossal di Cameron segnava un breakthrough sostanziale nella storia del cinema, ovvero l’arrivo in pompa magna (il 3D infatti era stato usato anche prima, molto tempo prima) delle possibilità offerte dalla terza dimensione. Il breakthrough era senz’altro di quelli da ricordare, esattamente come a suo tempo lo era stato l’arrivo del sonoro e poi del colore.

Ma andiamo con ordine. Premetto anche che questo pezzo potrà interessare soltanto chi si occupa di cinema, di storia del cinema, delle tecnicalità che lo fanno vivere e, dulcis in fundo, di effetti speciali, perché, alla fine della fiera, le tre produzioni citate di questo vivono. La prima considerazione che è doveroso fare è che se AVATAR è stata una “esperienza” per lo spettatore, dal punto di vista tecnico con The Avengers e Prometheus siamo già entrati, in pieno, in quello che sarà l’entertainment del futuro. Non ho difficoltà a scrivere che nel realm del Real 3D le possibilità prossemiche superano di gran lunga quelle… catartiche. Una esagerazione linguistica, un’iperbole, per descrivere ciò che mi riesce difficile descrivere, dato che, a mio avviso, l’arte del cinema 3D è l’arte del dettaglio tecnico ispirato che cattura la mente e la porta sicuramente in universi-altri. Come niente prima.

Ed è arte capace di produrre paradossi. La situazione paradossale su cui riflettevo ieri sera? Il fatto che tanto più si affina la tecnica digitale tanto ridondante diventa la presenza dell’artista, dell’attore in carne e ossa. Di fatto, la sua parte, la sua recitazione si propone ingombrante, a tratti pesante, procura quasi uno scadimento del rendimento complessivo. Facciamo un esempio pratico. Partiamo da AVATAR. Rispetto agli altri due film citati, il film di Cameron proponeva, infatti, una parvenza di sostanza. L’effetto 3D era maturo ma le sue possibilità di crescita erano pure evidenti. Tuttavia, Avatar splendeva grazie a quella perla-raccontata che era il microcosmo luna-Pandora del gigante cosmico Polifemo. Cameron, insomma metteva in scena una “rara, quanto nitida, visione moderna di un universo panteistico sui generis (1)”. Proponeva una data visione filosofica di fondo, sulla scia degli approcci raziocinanti dei primi filosofi. Detto altrimenti AVATAR aveva ed ha un suo perché, un suo claim-to-glory oltre la sua digitalità, da lì il successo globale, da lì l’infinita collezione di premi, da lì l’essere diventato il film che ha incassato di più nella storia del cinema di tutti i tempi.

The Avengers, occorre dirlo, manca in maniera totale di un simile salvagente protettivo. Da un punto di vista artistico il film di Whedon non esiste, manca di sostanza e non la cerca neppure. Au contraire, ci sono delle scene, come quella dell’anti-eroe quasi hitleriano che a Berlino fa inginocchiare i tedeschi ai suoi piedi, che sfiorano il ridicolo nell’imbarazzo intellettuale che procurano. The Avengers è un blockbuster commerciale duro e puro ma (paradossalmente) io ritengo che sia stato proprio questo tratto a permettere l’incredibile show digitale e di possibilità-tecnica che questo regista ha portato nelle sale cinematografiche. In The Avengers lo spettatore è là. Diventa lui stesso un eroe superdotato, proprio come i protagonisti del film. Non ho alcuna difficoltà a confessare che, in almeno due occasioni – la prima era forse il lancio di un dardo, la seconda lo sparo di un proiettile – mi sono istintivamente mossa, tale era l’impressione di essere io stessa il bersaglio, tale era l’enhancement del dettaglio tecnico, tale era la profondità di visione goduta grazie agli occhiali 3D.

PROMETHEUS, secondo me, è invece una via di mezzo tra AVATAR e THE AVENGERS. I punti criticabili sono essenzialmente due: uno script che non rende assolutamente giustizia allo sforzo economico e digitale messo in campo, nonché il suo essere legato mani e piedi alle dinamiche di “Alien” la celeberrima saga fantascientifica di Scott. A differenza di The Avengers però, Prometheus ha dei momenti così digitalmente ispirati che è proprio questo film a denunciare quel paradosso di cui parlavo in precedenza: ovvero, la sempre più visibile ridondanza del fattore umano nel contesto artistico cinematografico. Certo, si potrebbe obiettare che pensando alla straordinaria creatura digitale Gollum proposta nel THE LORDS OF THE RINGS (2001-2003) di Peter Jackson, io non stia dicendo nulla di nuovo, ma è indubbio che in Prometheus ciò che nel lavoro di Jackson risultava “impressione”, adesso diventa “certezza”.

Finanche problema quando si pensa che il climax artistico in PROMETHEUS è senz’altro dato da quel grandioso momento in cui gli ologrammi degli “alieni” trapassati mettono in moto la gigantesca astronave sepolta e richiamano dentro la sala commandi una mappa stellare visibile, tri-dimensionale e assolutamente breathtaking nella sua spettacolarità. Stridente il contrasto con la performance “umana” resa ancor più flebile da dialoghi manco passabili, “supportata” da un plot discutibile, irrisa dalla distanza tangibile con l’orizzonte-d’attesa.

La lezione che impartiscono al cinema moderno, ai vip e ai vippetti da gossip tabloidico, e forse all’arte-tutta dei nostri tempi, gli ingegneri digitali di Hollywood? Sicuramente una di umiltà. Ma soprattutto a intrigare è la sfida che lanciano: se volete stare al passo con i tempi, con il modus audace della tecnologia, SVEGLIATEVI! Perché se la grande letteratura è morta è indubbio che l’ispirazione artistica del futuro, quando ci fosse, potrà trovare “sfogo” nei grandi mezzi messi a sua disposizione proprio della tecnica. Allo scopo di arrivare davvero dove non sono mai riusciti ad arrivare i grandi geni del passato per un mero limite tecnologico (non creativo, in quel caso!). Non oso pensare, infatti, allo straordinario rendimento delle tragedie shakesperiane quando verranno messe in scena utilizzando l’effetto digitale. Perché è indubbio che gli stratagemmi tecnici cinematografici, potranno rendere davvero soltanto quando la “sostanza-intellettuale” muoverà con il loro stesso ritmo. Ne deriva che nell’attesa del risveglio post-crisi dell’establishment-artistico globale, sarà meglio puntare su un cavallo sicuro; come a dire che anche nell’era del Real 3D l’ispirazione del bardo di Stratford-upon-Avon fa ancora la differenza. E, personalmente, penso che la farà sempre, per molto altro tempo a venire.

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Note:

(1) Avatar di Rina Brundu

Breve analisi critica dell’epica fantascientifica di James Cameron

Mai, prima della visione di AVATAR (2009) di James Cameron in 3D, mi era capitato di lasciare una sala cinematografica con la certezza di avere vissuto…. un’esperienza.

AVATAR è, a mio modo di vedere, produzione che entrerà di diritto nella storia del cinema. Ciò non accadrà per l’incredibile record di incassi, o per un suo improbabile valore artistico, quanto piuttosto per il fatto che, con questa straordinaria epica, si accede, mani e piedi, dentro l’universo ancora tutto inesplorato dell’intrattenimento futuro.

Per associazione di immagini mi tornano alla mente alcune scene di Star Wars, ovvero i momenti in cui gli eroi di quell’altro strabiliante lavoro (che adesso mi pare appartenere, pure quello, ai secoli andati), si ritrovano a teatro a godere di emozionanti forme artistiche a noi ancora sconosciute e non per questo meno possibili.

Mi preme precisare che ho appena usato la parola “intrattenimento” scegliendola tra una serie di termini passabili ma, in verità, tutti assolutamente limitati quando si tratta di spiegare “l’esperienza” di cui parlavo nell’incipit. Come ogni evento che è veramente tale, la creazione di Cameron è infatti universo compiuto che si presta ad approcci critici diversi e ad una attenta analisi della struttura, nonché delle ragioni che lo hanno fatto vivere.

Da cultrice dello sci-fi, e di tutte le grandi produzioni che negli ultimi dieci anni hanno fatto dei cosiddetti “effetti speciali” la loro ragion d’esistere (a volte, delegando agli stessi anche le motivazioni “artistiche”), non mi interessa soffermarmi sulla questione delle notevoli opportunità offerte dalla rivoluzione digitale. Con questo non voglio dire che tale breakthrough sia un qualcosa di assodato, un fatto compiuto e concluso (sarebbe un ossimoro), quanto piuttosto che non è certamente AVATAR ad avercene fatto intuire le enormi possibilità.

Vero è invece che, rispetto a questi argomenti, la mega produzione di James Cameron si presenta come prodotto più finito. Nulla, più di un’epica fantascientifica ambientata in una bellissima luna del lontano gigante gassoso di Alfa Centauri, può dare man forte a simili possibilità tecnico-avveniristiche. Non si discute! Ragion per cui, molto più importanti sono gli effetti che, un simile lavoro digitalmente evoluto, e rinforzato dalle possibilità della terza dimensione, ha prodotto e produrrà. Soprattutto, a livello artistico.

Per ovvie ragioni non mi soffermo nemmeno sugli scontati enhancements delle necessità e delle possibilità catartiche, piuttosto mi preme sottolineare quanto la raffinata definizione del mondo rappresentato permetta la creazione dello spessore necessario ad ospitare dinamiche più complesse. In particolar modo, di quel genere di dinamiche che ci permettono di interrogarci sulle motivazioni fondanti il mondo rappresentato, qualunque esse sino e qualunque esso sia, e sulle ragioni importanti che lo fanno esistere.

Di fatto, AVATAR, propone una rara, quanto nitida, visione moderna di un universo panteistico sui generis. Dopo di che si può discutere se questa visione ci rappresenti e quale sia la sua effettiva validità logico-filosofica, spirituale, ma certamente non si può negare che esista. Sarebbe come negare che l’acqua sia per Talete di Mileto il principio unico che è origine di tutte le cose, solo perché l’evoluzione del nostro argomentare ha mostrato i limiti di quei primi grandiosi approcci.

Tutto è acqua diceva Talete. Tutto è Eywa nella bellissima luna Pandora del gigante Polifemo. Eywa, ovvero la divinità sacra della tribù dei Na’vi, è in sé e per sé “principio unico” straordinariamente taletiano nel suo mostrarsi come energia fisica che nasce e che muore, che vive dentro ogni essere ed ogni cosa, che permette a gigantesche montagne di fluttuare nell’aria come gioielli in vetrina. A ben guardare però, AVATAR propone anche un superamento di quei limiti meccanico-naturalistici. Un esempio importante è la preghiera rivolta dall’avatar di Jake Sully a Eywa-albero delle anime, affinché aiuti gli autoctoni nella “madre di tutte le battaglie” contro gli alieni invasori.

Ascoltata di nascosto tale supplica, sarà proprio la futura compagna Neytiri, la guerriera Na’vi che lo ha educato agli usi e costumi del suo popolo, a ricordare a Jake che Eywa-madre-Natura non si schiera con nessuno. Non prende le difese di questo o di quell’altro partito. Neytiri dovrà però correggersi da sola quando si renderà conto che, non solo Eywa ha sentito la preghiera di Jake, ma ha pure optato per una incredibile scelta interventistica. Eywa come spirito raziocinante dunque, entità che trascende le possibilità limitate dell’icona materiale (vedi la figura dell’albero) e dell’energia fisica; Avatar come sogno artistico e disegno creativo da cui attingere innumerevoli possibilità di critica e di pensiero.

Fermo restando che fa certamente impressione vedere un possibile-esercito-dello-zio-Sam costretto dagli straordinari eventi ad una ingloriosa quanto precipitosa ritirata, la tematica antimilitarista proposta da Cameron mi sembra davvero meno rilevante rispetto agli argomenti già trattati.

Guardando ad AVATAR “as a whole”, non mi sento di discuterne invece le sue pretese artistiche, questo perché le stesse mi paiono inibite da una cornice (sovrastruttura) insoddisfacente. Insomma, è un poco come se Lewis Carroll avesse lasciato che un posticcio cadere e ricadere di Alice nel suo strabiliante mondo onirico, privilegiasse le ragioni minime dell’universo esterno a discapito delle meraviglie, dei paradossi e delle assurdità che offre la prodigiosa tana del coniglio. Non escludo però che in un tempo molto lontano da noi questo possibile limite possa non apparire tale.

Di certo e di fondamentale – e qui mi ripeto – resta invece il tema dell’eredità (in senso lato) che questa mega produzione ci lascia. Ripensando alle emozioni e alle sensazioni del tutto nuove che ho provato in quella sala cinematografica, mi chiedo infatti come, le altre espressioni artistiche, per quanto valide ed impegnate, potranno competere in futuro con le possibilità di crescita che – per chi le sa sfruttare – offre questo genere di “intrattenimento”.

Posso solo pensare che un giorno ci saranno tanti uomini e tante donne, tremendamente capaci, che sapranno mettere a disposizione di tutti il dono sublime della loro creatività, della loro capacità artistica e visionaria e della loro capacità di raziocinio, in forme e in modi che per il momento non mi riesce neppure di immaginare.

Dublin, 27/02/2010

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