Cinema di frontiera: Stan Brakhage

Creato il 06 agosto 2011 da Ghostwriter

“L’unico vero realista è il visionario”, parola di Stan Brakhage. Influenza profonda del neorealismo da un lato e del surrealismo visivo dall'altra: Rossellini mitigato con Cocteau - specialmente Le Sang d’un poète - attraversando poi i fotogrammi come una grande tela astratta. Anticipation of the Night. Titolo programmatico per un genere di film che non ama la presenza dell'attore, tanto meno il divismo fine a sé stesso, non le complicazioni spesso convenzionali di una storia, tanto meno il dialogo e il genere, ma piuttosto l'immagine-movimento esplorata in quanto tale: gioco raro, oggi quasi introvabile, ma un periodo - tra anni Sessanta e Settanta- di grande impatto anche sociale. Psichedelia, evidentemente. Cultura beat...Espressionismo astratto rivisitato, tra Pollock e De Kooning ma dove la tela è diventata un più schizofrenico e stroboscopico video painting? Brakhage e William Burroughs hanno, all'apparenza, molto in comune. In realtà, a parte l'idea che il condizionamento psicosociale è un male da combattere non vedo molti punti di contatto tra l'autore di Dog Star Man e il Burroughs videomaker (con la complicità di Brion Gysin, se ricordo bene), diciamo quello di Towers open fire. Meglio cercarli nelle costellazioni frammentarie ma poeticamente sensibili e ben più variabili di un Allen Ginsberg. Forse la differenza sta proprio nello spirito "lirico" di Brakhage che poco sembra avere a che fare con programmatiche messe in scena da "rivoluzione elettronica" alle quali Burroughs ci ha abituato nel corso del tempo, da The soft machine e Nova Express in poi? Oppure il lirismo di Burroughs - come negare che c'è persino in lui una punta di Rimbaud?- è soltanto troppo lontano dalla natura, dai boschi di fuoco o dal clima fiabesco (ancora Cocteau, tutto sommato) di un film come The Way to the Shadow Garden?  In ogni caso, il regista di Dog Star Man (un film-epopea su cui torneremo) preleva volentieri dal grande mare della letteratura, specialmente da quella orientale e si alimenta di rapporti tutt'altro che scontati tra l'ambito della parola e quello dell'immagine. Si tratta sempre di creare quelle che Elemire Zolla ha chiamato "uscite dal mondo" (in un saggio pubblicato da Adelphi). Archetipi o "metafore della visione", come recita il titolo di un noto saggio scritto dal regista nel periodo più fervido ed imprevedibile, gli anni Sessanta. Molti i titoli, non sempre indimenticabili.  "Antinarrativo per eccellenza, nel tentativo di tradurre senza censure un’interiorità esplorata anche con pratiche magiche, sostanze psicotrope, tecniche orientali di meditazione. La rappresentazione cessa d’essere naturalistica e cerca di rendere, dall’interno, sensazioni, emozioni ed esperienze visionarie. Il tempo diventa quello del ritmo psichico e del sogno. La violenza dell’inconscio, ribollente sotto la coscienza ordinaria, viene esplorata e rivelata in un outing rabbioso o follemente gioioso". Prelevo questa bella descrizione da un articolo apparso sulla rivista online Fucine mute. Mi sembra che colga tutto l'essenziale, il resto si può approfondire anche ricorrendo alla capacità di approfondimento di Senses of Cinema. Occhio alla filmografia. Semmai il problema rimane la visione oggettiva, concreta dei film di questo grande sperimentatore che è stato Brakhage. Per non attendere il solito festival, tra l'altro in odor di crisi, che fare? Per esempio lanciarsi in un acquisto meditato come quello proposto da Criterion, un'antologia da collezione. 


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