Ad entrambi rivolgo nuovamente da queste pagine i ringraziamenti per la cortese ospitalità, così come rinnovo un caloroso grazie allo staff tecnico e al pubblico presente in sala, quest’ultimo particolarmente attento e partecipe nel corso delle presentazioni e proiezioni dei titoli proposti (“Parenti serpenti”, “Pranzo di Ferragosto” e “Il nome del figlio”), tanto da caldeggiare la benvenuta idea di costituire un Cineclub, che spero di riuscire ad attuare con le opportune collaborazioni. Per la preparazione della relazione si è rivelata preziosa la lettura dei testi “Gustose visioni” (Marco Lombardi- Iacobelli Editore- 2014) e “Gli attori del gusto” (Miriam Visalli-Cartman Edizioni-2009), così come la visione del documentario “Cinema e cibo-Storia d’Italia a tavola” (2004, commentato da Matteo Mugnani).
Le repas de bébé
Il legame fra cinema e cibo è presente sin dalle prime proiezioni pubbliche, sia come rappresentazione del reale sia come trasfigurazione della realtà in chiave magica e fantastica. Riguardo la rappresentazione del reale, fra i dieci film che i fratelli (Auguste e Louis) Lumìere proiettarono il 28 dicembre 1895 presso un caffè parigino per il primo spettacolo pubblico cinematografico vi era Le repas de bébé (Il pasto del bimbo), filmato di un minuto che presenta due genitori, lo stesso Auguste Lumìere e sua moglie, intenti a dare la pappa alla loro figlia. La declinazione fantastica la possiamo rinvenire invece in un film del 1900, opera di George Méliès, Le Repas Fantastique (Il pasto fantastico):un uomo si appresta a cenare con la moglie e la figlia, ma i tre vengono disturbati da tutta una serie di fenomeni soprannaturali. Quindi il tema del cibo accompagna le origini cinematografiche e da qui in poi intensifica il suo legame con il grande schermo, raffigurando varie problematiche culturali, storiche, antropologiche e sociologiche. Così, ritornando all’interno del nostro cinema, la corrente del Neorealismo ha descritto in vari film i tanti mutamenti sociali in atto dal secondo dopoguerra in poi, anche evidenziando il passaggio dai piatti vuoti alle tavole sempre più imbandite che andavano a simboleggiare la progressiva ripresa economica del paese.
Il periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra, la disperazione di una popolazione sopraffatta dagli eventi, il lento cammino verso la riconquista di ogni dignità viene incisivamente figurato da due film simbolo del Neorealismo, Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1946) e Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948): ecco nel primo la straziante rappresentazione, vivida, pregnante, dell’immediato secondo dopoguerra, il poco pane razionato disponibile con la tessera, la borsa nera, le donne che si danno fare per ridare compostezza e continuità alla propria famiglia.
Enzo Staiola (“Ladri di biciclette”)
In Ladri di biciclette vi è una famosa sequenza, emblematica di come anche nella cornice di una tragica realtà vi sia chi comunque non sembra aver subito contraccolpi evidenti e continua la propria vita di sempre, come nulla fosse successo. Antonio (Lamberto Maggiorani) e Bruno (Enzo Staiola), padre e figlio, dopo un travagliato peregrinare alla ricerca della bicicletta rubata al primo, necessaria per svolgere il suo lavoro d’imbianchino, si fermano in una trattoria per mangiare.
Dietro il tavolo occupato dai due vi è un bimbetto ben vestito e la sua famiglia, intenti a far onore ad una serie di pietanze, ma tale coetaneo appare come estraneo al contesto familiare, mentre Bruno e il padre discutono fra di loro riguardo le future possibilità di rimettersi in sesto.
Due diversi tipi d’Italia, dunque, quella che il domani se l’è vista assegnato e chi se lo dovrà immaginare ancor prima che guadagnarselo.
Anche il passaggio dalla monarchia alla repubblica trova nel nostro cinema il suo passaggio attraverso la tavola: nel film di Dino Risi (1962) Una vita difficile Alberto Sordi e Lea Massari si ritrovano ad una cena di monarchici, i quali sono in attesa del fatidico esito referendario. Sono stati invitati casualmente, per ovviare alla presenza di tredici commensali. Una volta che la radio darà la notizia dei risultati, resteranno soli a tavola a festeggiare con un enorme piatto di fettuccine la vittoria della Repubblica e la speranza di un domani migliore.
Alberto Sordi (“Un americano a Roma”)
Qui l’Albertone nazionale sembra riprendere, idealmente, la famosa scena di Un americano a Roma (Steno,1954), dove affondava la forchetta in un piatto di maccheroni e si attaccava ad un fiasco di vino dopo averli disprezzati come “roba da carrettieri” in nome del salutare, a suo dire, cibo d’oltreoceano, yogurt, latte e mostarda, presto destinati al sorcio, al gatto e alle cimici… Un modo di usare il cibo quale pretesto comico, come in molti film di Totò, uno su tutti Miseria e nobiltà (1954, Mario Mattoli), o I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958) dove una banda d’improvvisati ladruncoli si consola del fallito colpo con un piatto di pasta e ceci. L’Italia del boom economico, sembra essersi lasciata ormai alle spalle lo spettro della fame, in film come Il sorpasso (Dino Risi, 1962) il cibo è presente non solo nel desco familiare, ma un po’ in tutti i luoghi attraversati dal protagonista Bruno (Vittorio Gassman). Negli anni ’70, caratterizzati dalla crisi economica, profonde riforme sociali, violenza espressa a diversi livelli, il cibo all’interno del cinema inizia ad essere accostato a segnali di malessere, d’insofferenza diffusa verso lo stato attuale delle cose: nel film La grande abbuffata di Marco Ferreri (1973), gli eccessi culinari cui si sottopongono volontariamente quattro amici all’interno di una grande villa fino a morirne, diventano il simbolo della volontà di concentrarsi essenzialmente sull’atto del mangiare come sostitutivo dell’agire umano, del prendere una posizione riguardo i vari accadimenti.
Una scena de “Le fate ignoranti”
Il cibo, l’atto del mangiare come apportatore o rappresentante di svariate problematiche, è una tematica che accompagnerà tutti gli anni ’80 e buona parte degli anni ‘90, quando, in nuova fase di crescita economica, con gli ulteriori stimoli offerti dalla pubblicità televisiva, che da un lato incoraggia il consumo e dall’altro impone modelli di perfezione estetica, iniziano a farsi evidenti patologie (obesità, bulimia, anoressia) che il cinema italiano non manca di sottolineare, ora in chiave comica (per esempio 7 chili in 7 giorni, 1986 , Luca Verdone) ora drammatica (Il grande cocomero, 1993, Francesca Archibugi). Sul finire degli anni ’90 e sino ai giorni nostri, ecco invece la continua alternanza fra tradizione ed omologazione, cui si aggiunge, in virtù dei tanti programmi televisivi che consentono una degustazione virtuale, al concetto di cibo non solo come qualcosa da gustare ma anche bello da guardare e, nuovamente, momento conviviale (le grandi tavolate presenti un po’ in tutti i film di Ferzan Özpetek). In conclusione il cinema, attraverso le immagini proiettate sul grande schermo ha sempre offerto spazio al cibo, di volta in volta visto come pretesto narrativo, tematica, sfondo sociologico, ed è riuscito ad intrattenere ed evocare emozioni, sapori e sensazioni unite alle vicende dei protagonisti. Parlare del rapporto fra cibo e cinema, infatti, per quanto banale possa sembrare, è come parlare della vita, siamo tutti commensali alla stessa tavola e tutti attori sullo stesso palcoscenico.