Il film, che è tratto da due libri pubblicati dallo stesso Woods (il quale fu coinvolto, assieme alla moglie Wendy, alla realizzazione del film), si può schematicamente dividere in due parti. La prima narra del rapporto tra i due e si conclude con la morte di Biko. La seconda parte narra invece le vicende del giornalista costretto alla fuga, assieme alla sua famiglia, per aver denunciato il governo sudafricano per l'assassinio in carcere di Biko. Il suo esilio a Londra durerà fino al 1994.
Un film di denuncia, in uno stile "molto inglese" e liberal, con alcuni momenti intensi e forti, e altri forse troppo lenti e lunghi. Un film, che come spesso capita per l'Africa, ha avuto il grande pregio di far conoscere al mondo, una delle drammatiche storie della segregazione razziale in Sudafrica.
Il film non potè essere girato in Sudafrica (il regime razzista era ancora saldamente al potere) e fu quindi girato in Zimbabwe, aparte alcune piccole scene in Kenya.
Steven Bantu Biko, cristiano di di etnia xhosa, era nato nel 1946 in Sudafrica. Studente di medicina all'Università del Natal, era diventato un leader studentesco del movimento antisegregazionista sudafricano. Alla fine degli anni '60 partecipò alla nascita del Black Consciousness Moviment, di cui divenne leader. Espulso per la sua attività politica dall'Università nel 1972. Nel febbraio 1973 il regime sudafricano lo mise in una condizione di "isolamento forzato": gli fu proibito di incotrare più di una persona alla volta, di parlare con i giornalisti, di avere pubblica vita, così come fu proibito a chiunque di riportare sue parole o suoi scritti. Nonostante le restrizioni l'attività del movimento e di Biko non si fermarono. Furono tra i protagonisti delle protesta di Soweto, che sfociò nella violenta repressione, e nel massacro del 16 giugno 1976.
Il 18 agosto 1977 Steve Biko fu arrestato. Interrogato e torturato per 22 ore consecutive. Quell'interrogatorio si concluse con un forte colpo al cranio (presumibilmente dovuto ad una sbranga di ferro) che lo ridusse in coma. L'11 settembre, dopo quasi un mese di agonia, fu deciso il suo trasporto a Pretoria, dove si trovava un carcere con un ospedale. Il viaggio, quasi di 1200 chilometri, fu fatto in auto. Il giorno dopo, il 12 settembre 1977, Steve Biko esalò il suo ultimo e forse incosciente respiro. Aveva 31 anni. Il governo sostenne che la sua morte fosse stata determinata da un prolungato sciopero della fame, ma l'autopsia confermò l'omicidio per tortura (emorragia cerebrale da forte contusione e altro). La verità sulla morte di Biko si deve al lavoro di due giornalisti bianchi Donald Wodds e Helen Zille, oggi affermata politica sudafricana.
Donald Woods, sudafricano bianco (di quinta generazione) nato nel 1933, era capo editore del Daily Dispatch (giornale moderato su posizioni anti-apartheid, ma allo stesso tempo contrarie al movimento di coscienza nera), quando nel 1965 incontrò Steve Biko (grazie a Ramphela Mamphela, "amante" di Biko nonchè medico e attivista del Black Consciousness Movement). Da quel giorno e fino all'assassinio di Biko, i due ebbero una interensa relazione di amicizia e di stima.
Dopo i fatti di Soweto del 1976 fu costretto agli arresti domiciliari dal governo. Dopo la morte di Biko, riuscì a fotografare il corpo martoriato e a denunciare l'omicidio. Fu costretto alla fuga dal suo paese verso Londra, via Lesotho, assieme alla famiglia. Dove rimase in esilio fino al 1994. Continuò la sua attività contro l'apartheid (nel 1978 fu anche il primo non diplomatico a parlare nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU). Ritornò in Sudafrica nel 1994 all'elezione di Nelson Mandela alla presidenza.
Morì di cancro il 19 agosto 2001.
It is better to die for an idea that will live, than to live for an idea that will die (Steve Biko).
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