Due biografie: 1)The imitation Game; 2) La teoria del tutto
Pochi i buoni film, in questo momento: se si eccettuano i grandi film del passato, restaurati e riproposti, le novità più interessanti non si vedono, non perché manchino (che fine hanno fatto, per esempio, il Leone d’oro e gli altri premiati di Venezia?), ma più probabilmente per il desiderio della distribuzione di incrementare gli incassi delle pellicole più commerciali del periodo natalizio. Siamo perciò tutti costretti ad accontentarci di ciò che passa il mercato, che non è di grande qualità. Speriamo in meglio. Offro ai lettori due recensioni nello stesso post: al centro di entrambi i film (in verità alquanto modesti) sono due scienziati, assai importanti, di cui vengono raccontate le sorprendenti biografie.
Regia: Morten Tyldum
Principali interpreti: Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode, Mark Strong, Rory Kinnear – 113 min. – Gran Bretagna, USA 2014.
Alan Turing (1912 – 1954) fu un celebre matematico londinese, logico ed enigmista, la cui vita il regista norvegese Morten Tyldum ricostruisce a partire dal momento più drammatico per la storia britannica, durante la seconda guerra mondiale, quando egli fu assunto dal controspionaggio del suo paese. Gli era stato affidato l’ arduo compito di indirizzare e coordinare il lavoro del gruppo di matematici di Bletchley Park, impegnati a decifrare i dispacci nazisti, penetrando nei codici criptati della macchina Enigma, modificati dopo che il controspionaggio polacco era riuscito a carpirne parzialmente i segreti. Gli studi e le intuizioni di Alan Turing, che per raggiungere lo scopo aveva concepito e fatto costruire una “macchina” antesignana dei computer, permisero la realizzazione di Colossus, il calcolatore mastodontico decisivo per decifrare i piani della Germania hitleriana e vincere la guerra. L’interesse del film non è però tanto nel racconto di questa vicenda molto nota e più volte raccontata anche dal cinema, quanto nella evocazione della difficoltà fra le quali Alan Turing fu costretto a vivere, dissimulando la propria omosessualità, considerata reato da sempre e persino negli anni ’50 del Novecento nel “civile” Regno Unito. Ingrata e incurante dei suoi meriti, la sua patria, infatti, lo processò, dopo averlo arrestato, costringendolo a scegliere (si fa per dire!) fra un certo numero di anni di galera e la castrazione chimica, insopportabile tortura farmacologica che, dopo un anno, lo avrebbe indotto al suicidio. Il film, che sviluppa l’argomento intersecando con numerosi flashback i piani temporali degli anni della guerra e di quelli successivi, è nell’insieme è assai piatto e tradizionale, anche se si avvale di buoni attori, soprattutto di Benedict Cumberbatch, che, nel difficile ruolo di Alan, uomo introverso e timido, dal comportamento impacciato, convince pienamente.
Titolo originale: The Theory of Everything
Regia: James Marsh.
Principali interpreti: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Charlie Cox, Emily Watson, Simon McBurney – 123 min. – Gran Bretagna 2014.
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, è un famosissimo verso di Eugenio Montale, che nega, in uno dei più celebri Ossi di seppia (Non chiederci la parola…) che il poeta possa spiegare la complessità del nostro animo e del nostro comportamento con esaustiva brevità o che sia in grado di rispondere alle domande di senso che da sempre l’uomo si pone. Si direbbe, però, che questi versi, che mi sono tornati alla memoria durante la visione del film, si attaglino solo ai misteriosi meandri della intuizione poetica, perché la formula che mondi possa aprirti (la teoria che spiega il tutto) sembra invece plausibile dopo gli studi di uno dei più celebri scienziati dei nostri giorni, il fisico Stephen Hawking, nato a Oxford nel 1942. Dotato di eccezionali doti di intuito e di intelligenza il giovanissimo Stephen aveva elaborato a Cambridge, fra il 1965 e il 1970, la spiegazione circa l’origine e l’evoluzione continua dell’universo, secondo un movimento di espansione che avrebbe avuto inizio col “big bang”, l’esplosione dalla quale scaturirono lo spazio e il tempo, strettamente correlati, in cui si colloca l’uomo insieme a ogni forma di esistenza (spero di avere ben compreso; chiedo scusa della banalizzazione agli amici fisici che mi leggeranno inorriditi). Il racconto degli studi a Cambridge del giovane astrofisico si alterna a quello della sua salute, estremamente fragile fin dall’adolescenza. Nel 1963, dopo accurati esami, gli fu diagnosticata, infatti, una malattia neurologica degenerativa, destinata a procurargli una gravissima paralisi progressiva e la morte nel giro di due anni. La prognosi era evidentemente sbagliata, visto che Hawking è ancora vivo, ma la diagnosi si rivelò attendibile, poiché la paralisi procedeva inesorabilmente. Egli, tuttavia, riuscì a portare avanti i propri studi grazie all’aiuto di Jane, la giovane innamorata di lui, che come lui studiava a Cambridge (letteratura francese e spagnola) e che aveva rinunciato a sé e al proprio futuro per sposarlo, assicurandogli le cure e l’assistenza necessaria affinché continuasse a lavorare alle sue importanti scoperte e a scriverne. Il film, ovviamente, sviluppa i due temi, quello della ricerca scientifica e quello della salute del ricercatore in modo vistosamente asimmetrico, privilegiando il secondo rispetto al primo, non solo perché è più facile il racconto di un malato che, pur deformato nel corpo e minacciato continuamente di morte, mantiene lucidissima la propria mente, ma soprattutto perché la storia dell’amore fra Stephen e Jane, allietata dalla nascita di tre figli, è più commovente di quella dell’evolversi di un pensiero scientifico capace di spiegare ogni cosa. Ne deriva un’opera alquanto lacrimosa, di quelle che poco apprezzo. L’attore Eddie Redmayne è molto bravo, forse anche troppo.
Angela Laugier
1901/0615/1645