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Cinema - Rimpiangendo Django (12 anni schiavo) - di Angela Laugier

Creato il 09 marzo 2014 da Tafanus

12 anniRecensione del film "12 anni schiavo" (di Angela Laugier)

Titolo originale: 12 years a slave

Regia: Steve McQueen

Principali interpreti. Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Lupita Nyong’o, Sarah Paulson, Brad Pitt, Alfre Woodard, Scoot McNairy, Taran Killam, Garret Dillahunt, Michael K. Williams, Quvenzhané Wallis, Ruth Negga, Bryan Batt, Chris Chalk, Dwight Henry, Anwan Glover, Marc Macaulay, Mustafa Harris – 134 min. – USA 2013.

Solomon Northup era un cittadino libero di Saratoga, città nello Stato di NewYork dove viveva, apprezzato violinista e artigiano, insieme alla moglie e alle due figlie, godendo della stima e del rispetto generale. La pelle nera non gli aveva creato ostacoli nella vita sociale e familiare fino al 1841, anno in cui venne rapito da un’organizzazione schiavistica che, dopo averlo ingannato con la promessa di un vantaggioso contratto di lavoro, lo aveva intontito con un intruglio di vino e belladonna e trasportato in catene nel Sud schiavista. Delle sue vicissitudini, durate fino al 1853 (anno in cui, grazie all’intervento di un canadese abolizionista, gli venne riconosciuto il diritto di tornare a Saratoga e alla sua famiglia), Northup lasciò la drammatica testimonianza di un racconto autobiografico, l’unico, a quanto ho letto, in cui la schiavitù dei neri negli Stati Uniti sia stata raccontata da chi l’aveva vissuta di persona.

A questa narrazione si ispira fedelmente il film di Steve Mc Queen che, dopo aver ricostruito con cura gli scenari in cui Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) si muoveva liberamente, tra Saratoga e Washington, si sposta direttamente nei campi di cotone della Louisiana, cioè nei luoghi della schiavitù del suo personaggio, ripercorrendone le tappe. Solomon, infatti, non ebbe un solo padrone, ma tre, l’ultimo dei quali, Edwin Epps (Michael Fassbender) è, dei tre, il più cupamente feroce e anche il più complesso e contraddittorio, dominato totalmente a sua volta da una moglie possessiva e gelosa. Il regista sembra suggerirci non tanto che esistono diversi modi di essere schiavisti, dal più brutale, al più tormentato, al più “umano”, ma che lo schiavismo sia soprattutto la condizione mentale di chi accetta che esistano, per un presunto ordine naturale o divino, privilegi e privilegiati. Se è così,lo stesso Solomon, che non riesce a liberarsi dell’idea di soffrire per un ingiusto equivoco dovuto alla perdita dei propri documenti, non è estraneo a quella mentalità, neppure nel momento in cui Bass, il canadese provvidenziale (Brad Pitt), comparirà come un deus ex machina nella sua vita e riuscirà a restituirgli, con sentenza del tribunale federale, i diritti conculcati, con molte scuse: tanto gli spetta, per il fatto di essere stato un uomo libero e pazienza se i suoi compagni di umiliazioni e di dolore rimangono dov’erano, nei luoghi maledetti del Sud! Sappiamo solo dalle scritte che compaiono alla conclusione del film che egli lotterà successivamente per l’abolizione della schiavitù.

L’argomento trattato è certamente interessante e promettente, ma questo non si è tradotto quasi mai in un linguaggio cinematograficamente apprezzabile, poiché il racconto è molto piatto e difficilmente riesce a coinvolgere lo spettatore: si esce, anzi, con l’impressione che molto spesso le brutalità efferate siano il pretesto di rappresentazioni estetizzanti, del tutto fuori luogo, quasi che i corpi piagati e sanguinanti dei poveretti che le subiscono si trasformassero in eleganti e cupe pitture materiche informali. Quali fatti storici abbiano favorito il diffondersi della vendita di uomini e donne non viene detto, né quali distorsioni abbia prodotto l’obiettivo dell’arricchimento a qualsiasi costo, né perché gli abolizionisti come Bass si muovessero nelle campagne del Sud, cosicché tutto il film non trova né un accettabile riferimento storico-politico, e neppure un colpo d’ala narrativo che riesca a renderlo davvero coinvolgente, ciò che è più grave dal punto di vista della rappresentazione cinematografica. Inevitabile, anche se probabilmente ingiusto, il paragone con il bel film di Tarantino, Django unchained in cui schiavi e schiavisti avevano trovato una rappresentazione davvero indimenticabile!

Se 12 anni schiavo non avesse portato a casa l’Oscar più prestigioso, quello per il miglior film, non l’avrei recensito, per non infierire su un regista che ho apprezzato molto nei due precedenti film Hunger e  Shame.

Angela Laugier


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