Qui, si parla ancora di cose vere.
Qui, chi parla conserva un nome e parla in suo nome,
e la data che s’inscrive è quella di un tempo comune
in cui ciò che accade accade veramente.
Maurice Blanchot
*
A Marianna mando un messaggio in cui le scrivo “Oggi il menù prevede patate bollite e uova sode, mi fai compagnia?”. Non ci salutiamo nemmeno, ci scriviamo come se proseguissimo una conversazione mai interrotta, anche se ci sono giorni in cui non ci sentiamo affatto. Mi scrive “Sììììì, vuoi che prenda il pane?”. Con tante i accentate, e pane non ne voglio.
A Leda scrivo “Oh, ti aspetto per il caffè” e lei mi risponde soltanto “Ok!”, così, col punto esclamativo. Siamo già in tre, chiamo anche Corrado, che mi chiude la chiamata per richiamarmi subito dopo, mi dice “Ti ho telefonato io perché ho le chiamate gratis”.
Questa casa, questa città mi piacciono adesso che ci sono loro.
Un momento sono da sola davanti a un libro che parla di solitudine e silenzio, che parla di scrittura, di letteratura, di vuoti, e un momento dopo so che non sarò più sola, perché c’è qualcuno che ha voglia di stare con me, come io ho voglia di stare con lui. Mi piace questa corrispondenza improvvisata, questo trovarsi subito senza essersi troppo cercati o troppo aspettati, e condividere lo stesso tempo e lo stesso luogo, per quanto insufficienti appariranno a breve tempi e luoghi.
Mi piace che il cielo sia ancora blu alle sei, essere spalla a spalla contro Marco che dice che attorno al Simeto la terra è già piena di fiori. E Giulio racconta che sull’autobus, rientrando a casa l’altra sera, ha visto l’arcobaleno e uno stormo di uccelli neri. “Com’esuli pensieri” dice Marcello, “nel vespero migrar” dico io. “Onesto, ‘mbare”, conclude Giulio. Mi piace ridere per questo, anche se non ho voglia, anche se sono giorni che non ho più voglia.
Mi piace prendere Corrado sottobraccio, dirgli “Oggi mi sento un po’ triste”, “Che hai?”, “Niente. Non si può essere sempre felici”, “Hai ragione, è noioso”, “Sì, noioso”, “Però è più bello quando ridi”, e mi fa sorridere e mi dice “Ecco, così”.
Marcello mi guarda, un pomeriggio, mi dice “Tu sono dei giorni che hai una luce nuova negli occhi. Cos’è, sei innamorata, è la primavera?”.
E Giù mi fa “Mari, si vede quando cambi, sei trasparente, hai degli occhi che si vede tutto”. Ma so che non è vero, so che è lei, capace di vedere tutto, di vedermi tutta, senza che nessuno glielo abbia spiegato, io stessa non avrei saputo. Le piace il blu. Su una slide che parla dell’uso del colore nell’arte c’è scritto che qualche studioso di cui non ricordo il nome al blu associava l’eccitazione e la pace. L’eccitazione e la pace. Guardo Giù, le dico sei tu, sei il blu. Lei mi sorride acquatica e mi accarezza la schiena. In un’altra slide c’è scritto che è importante considerare il tempo che ciascun visitatore decide di impiegare nella visita di un museo o di una mostra. Le dico che io ci metto tanto, che non voglio nessuno che mi faccia fretta, che non voglio proprio nessuno. Mi dice però che è bello andarci con qualcuno che sente come senti tu, che si ferma davanti allo stesso quadro che ami tu, è bello quando capita. Sì, le dico, ma quando capita?
Sono in piedi col cappotto, la lezione è finita, con calma mi sistemo la borsa. Corrado è già pronto e aspetta, con lo zaino addosso, le mani nelle tasche. “Mica vorrai che ti faccia passare?” gli dico. “No, preferisco stare vicino a te”.
E nei momenti morti c’è Marianna che prende il telefonino e dice “Foto!”. Così abbiamo una serie di foto in cui ridiamo o con le facce buffe, troppi denti, i capelli scombinati, giorno dopo giorno, lezione dopo lezione finché non avremo più lezioni e pause e foto.