“Città aperta” di Teju Cole

Creato il 01 settembre 2013 da Sulromanzo
Autore: Sara DurantiniDom, 01/09/2013 - 11:30

Quando penso a New York la memoria sfoglia i versi di García Lorca, una scrittura limpida, trasparente, asciutta pur nella sua complessità simbolica, nella sua intricata, e per questo affascinante, matrice multiculturale che affonda le radici nei gitani dell'America Latina per poi rovesciarsi nella dinamica e intraprendente New York rappresentata ora dai negros di Harlem ora dalla solitudine del poeta che vive di ricordi e rimpianti, tentando di uscire dal fango nostalgico per costruire un presente nel quale possa trovare un ruolo e una collocazione. La vasta umanità di Lorca spinge a immaginare una città desolatamente vuota, dove il contatto viene raggiunto con fatica e dolore; una città che potrebbe dirsi piena di sé a tal punto da non lasciare spazio per nessun altro.

Questo pensavo di New York fino a quando non ho letto Città aperta di Teju Cole (traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi, 2013). Lo squarcio che si avverte nella narrazione è un'irripetibile esperienza sensoriale: odori, colori, volti, mani, occhi che s'incontrano, giacche che si sfiorano, aliti, suoni, musiche che, se non bastano ad acuire il dolore di un'anima sofferente, sicuramente ne sanciscono la spietata solitudine. Spesso, infatti, tra le pagine del libro si ritrova la parola “solo”. È solo Julius quando esplora, osserva, cerca New York tra le pieghe delle strade, degli snodi metropolitani, nelle librerie, nei bar, nei quartieri. È solo Julius quando accoglie la notizia della morte della moglie del suo vicino di casa. È' solo Julius quando osserva (forse giudica, corre in aiuto e si allontana) due barboni ciechi. È solo quando entra in un Blockbuster che sta per chiudere. È solo al cinema, così come è solo quando ripensa alla sua infanzia o alla gita con i Welcomers.

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Eppure quella solitudine non fa paura, anzi appare “stranamente rassicurante”. Julius cammina per le strade di New York e il lettore viene accompagnato lungo la Sessantaduesima, poi all'angolo della Sessantaseiesima, nel quartiere di Harlem (ecco García Lorca che ritorna), e ancora nei pressi del World Financial Center, lungo il fiume, mentre i ragazzi sono assorti dai loro skateboard. Un flâneur postmoderno che riscopre la città, un movimento che agisce tanto nello spazio quanto nel tempo. Julius, infatti, racconta quello che vede, ma anche quello che pensa; i ricordi si inseriscono nella narrazione come tasselli di un mosaico che vanno a completare parti che, altrimenti, risulterebbero vuote. E in questo susseguirsi di attualità e reminiscenze, continuo rincorrersi tra presente e passato, la scrittura risente di un'inconsapevole leggerezza, che ravviva la forma stilistica donandole sfumature inattese e lasciando una sensazione di stupore e meraviglia.

Stupirsi per poi meravigliarsi poiché non solo è presente nel romanzo di Teju Cole la genialità poetica di García Lorca, ma anche l'onestà e la delicatezza narrativa, la voracità tematica e la lucidità di un libro come quello di Mitch Albom, I miei martedì col professore. Sì, perché gli incontri con il professor Saito ricordano quelli narrati da Albom: la malattia, il bisogno di vivere per raccontare, la felicità strappata al tempo e conservata con gelosia. E poi ci sono le idee, le analisi, i bilanci, le previsioni per un futuro in continuo divenire. E qui il richiamo a None to accompany meNessuno al mio fianco di Nadine Gordimer. Il ricordo della sua famiglia, del rapporto burrascoso con la madre, della morte del padre, della nonna materna, la riflessione continua e mai sazia intorno alle proprie origini con forti accenni alla terra natale, l'Africa, alla situazione razziale a New York, nei vari quartieri. Non è tanto l'autore che attraverso Julius riflette sulla condizione di afro-americano quanto la città che s'interroga circa il problema razziale.

Leggendo mensilmente Juxtapoz, il nome di Teju Cole mi era da tempo familiare. Mi ero fatta un'idea piuttosto delineata attorno a quel ragazzo: critico, artista, grande conoscitore della cultura afro-americana, divulgatore. Oggi devo riconoscere anche un grande scrittore, un visionario della narrativa postmoderna.

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