Questo pensavo di New York fino a quando non ho letto Città aperta di Teju Cole (traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi, 2013). Lo squarcio che si avverte nella narrazione è un'irripetibile esperienza sensoriale: odori, colori, volti, mani, occhi che s'incontrano, giacche che si sfiorano, aliti, suoni, musiche che, se non bastano ad acuire il dolore di un'anima sofferente, sicuramente ne sanciscono la spietata solitudine. Spesso, infatti, tra le pagine del libro si ritrova la parola “solo”. È solo Julius quando esplora, osserva, cerca New York tra le pieghe delle strade, degli snodi metropolitani, nelle librerie, nei bar, nei quartieri. È solo Julius quando accoglie la notizia della morte della moglie del suo vicino di casa. È' solo Julius quando osserva (forse giudica, corre in aiuto e si allontana) due barboni ciechi. È solo quando entra in un Blockbuster che sta per chiudere. È solo al cinema, così come è solo quando ripensa alla sua infanzia o alla gita con i Welcomers.
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Stupirsi per poi meravigliarsi poiché non solo è presente nel romanzo di Teju Cole la genialità poetica di García Lorca, ma anche l'onestà e la delicatezza narrativa, la voracità tematica e la lucidità di un libro come quello di Mitch Albom, I miei martedì col professore. Sì, perché gli incontri con il professor Saito ricordano quelli narrati da Albom: la malattia, il bisogno di vivere per raccontare, la felicità strappata al tempo e conservata con gelosia. E poi ci sono le idee, le analisi, i bilanci, le previsioni per un futuro in continuo divenire. E qui il richiamo a None to accompany me – Nessuno al mio fianco di Nadine Gordimer. Il ricordo della sua famiglia, del rapporto burrascoso con la madre, della morte del padre, della nonna materna, la riflessione continua e mai sazia intorno alle proprie origini con forti accenni alla terra natale, l'Africa, alla situazione razziale a New York, nei vari quartieri. Non è tanto l'autore che attraverso Julius riflette sulla condizione di afro-americano quanto la città che s'interroga circa il problema razziale.
Leggendo mensilmente Juxtapoz, il nome di Teju Cole mi era da tempo familiare. Mi ero fatta un'idea piuttosto delineata attorno a quel ragazzo: critico, artista, grande conoscitore della cultura afro-americana, divulgatore. Oggi devo riconoscere anche un grande scrittore, un visionario della narrativa postmoderna.
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