Città di provincia
Da Gabriele Damiani
Pioveva. I muri diventavano neri di pioggia. Marisa uscì dal portone dell’istituto di bellezza. L’odore dell’asfalto umido le invase le narici e sentì le goccioline d’acqua infilarlesi nei capelli.“Che seccatura”, pensò.Il cattivo tempo non le piaceva, senza contare il fatto che la pioggia le rovinava la permanente e lei, sbadata, non s’era nemmeno portato l’ombrello prima di recarsi dalla parrucchiera, pur avendo notato le nuvole ingrossare e incupire. Attraversò in fretta la strada e fu al riparo sotto i portici.Al di là delle colonne intravedeva i tetri edifici fin de siècle della vecchia città. Lanciò qualche rapido sguardo ai pedoni, che contraccambiavano con occhiate piene di stupida malizia, e osservò le vetrine cariche di oggetti sgargianti che stonavano con le facciate scure dei palazzi.Giunta in casa, lussuoso appartamento all’ultimo piano di un condominio di via XX Settembre tutto abitato da gente bene in vista e ben fornita di rispettabilità e quattrini, si tolse il soprabito e la collana di perle. Si trattenne alcuni attimi davanti allo specchio. La permanente, in effetti, era riuscita coi fiocchi. Rassicurata sull’aspetto della propria testa, si adagiò su una poltrona del soggiorno con una rivista in mano, mentre la domestica preparava la cena.Puntuale, il marito rincasò alle otto. Lei quella sera non aveva voglia di cenare, mise scusa di un’emicrania e se ne andò a letto. I due durante il giorno si vedevano in pratica a pranzo e a cena, e poiché questi dolori di capo erano frequenti, ogni volta lui ci restava male.L’avvocato Ludovisi e Marisa dormivano in camere attigue arredate in maniera identica e comunicanti per mezzo di una porta laccata di bianco perennemente chiusa a doppia mandata. Ogni camera aveva il suo bagno, in tal modo la loro indipendenza si estendeva anche alle personali necessità igieniche. I letti erano bassi e di colore bianco e azzurro, come i grandi guardaroba. Azzurri erano i tappeti e bianchi i tendaggi, che coprivano un’intera parete. Nella camera dell’avvocato, a fianco al letto, si ergeva un vecchio inginocchiatoio butterato dai tarli. Non armonizzava con gli altri mobili, però l’avvocato rifiutava di privarsene, malgrado le insistenze della moglie.Marisa tirò su il cuscino, sistemandolo dietro la schiena. Aprì un giallo e cominciò a leggere. Presto si distrasse e lasciò scivolare il volume sulle coperte. La prese a un tratto il solito senso d’insoddisfazione. Persino suo marito riscuoteva più stima, quell’imbecille, mentre lei la gente la chiamava puttana, poco ma sicuro. Ecco, a che era servita la sua vita? A nulla. E la sua intelligenza? Ah sì, perché era intelligente e lo sapeva. E il suo fascino? Tutto era andato sprecato grazie a quel matrimonio inutile con quell’imbecille odioso. Colpa della sua famiglia, naturalmente, che le aveva imposto di sposare un uomo di dodici anni più anziano di lei, e un po’ colpa sua che non si era ribellata. Ma era così giovane lei, allora, e così indifesa, e così ingenua.Intanto l’avvocato, nella stanza accanto, pregava in pigiama sull’inginocchiatoio, sgranando la corona del rosario fra le dita.***Si svegliò verso le nove. L’avvocato era già uscito. Lei sarebbe uscita su per giù alle dieci, per le compere. Beveva in cucina il suo bicchiere di latte gelato, come ogni mattina, quando la donna di servizio l’avvertì che la volevano al telefono.«Chi è?».«Boh, non l’ha detto. Uno».“Stupida”.«Pronto?».«Ciao, Marisa, sono Franco».«Franco! Quando sei tornato?».«Ieri sera tardi. Purtroppo».«Perché purtroppo? Tanto bella è la Spagna?».«Meravigliosa. Da San Sebastiano ti ho spedito una cartolina, l’hai ricevuta?».«Sì. “A colei che sospirando mi attende e d’amor si strugge”. Bello spirito di patata».«Be’, voleva essere un pensierino delicato».«Oh, ne sono commossa. Mi piange il cuore».Franco ridacchiò e chiese a bruciapelo: «Senti, Marisa, quando c’incontriamo?». Abbassò la voce: «Non vedo l’ora di... Per quanto, forse, farei meglio a studiare».«Me l’immagino la tua voglia di studiare», lo schernì. Tuttavia aggiunse: «Fa’ una cosa. Passa a prendermi fra un’ora, un’ora e mezzo. Ce ne andremo in qualche posto. Ti va?».«Magnifico».***Alle undici e un quarto l’avvocato Ludovisi lasciò il tribunale, situato piuttosto in periferia, e s’incamminò verso il centro, diretto al suo studio. Aveva da percorrere un chilometro abbondante. L’avvocato faceva sempre la strada a piedi, pure d’inverno, se non pioveva, perché anche lui, come Marisa, non amava il brutto tempo.Il cielo era di un celeste splendido e il sole rendeva scintillanti le lamiere delle auto che congestionavano il traffico. Si sentiva di buon umore e muoveva con agilità le gambe allontanandosi dal palazzo di giustizia, un avveniristico ammasso di cemento armato, l’edificio pubblico più moderno della città.Quel giorno, in un’udienza civile terminata prima del previsto, si era prodigato invano nel sostenere gli interessi di un agricoltore. L’agricoltore, proprietario di un terreno espropriato, aveva presentato ricorso contro il decreto d’esproprio, emesso a favore di un industriale. L’industriale aveva richiesto al comune la cessione di un lotto per costruirci una fabbrica di mobili e la richiesta gli era stata accordata. La causa era persa in partenza, su ciò l’avvocato non aveva mai nutrito dubbi, poiché il terreno in questione era stato destinato dal piano regolatore a insediamenti industriali. Dopo che il giudice aveva letto la sentenza, il cliente aveva annunciato di voler ricorrere in appello. Per l’avvocato questo significava perdere di nuovo in appello, in compenso avrebbe intascato altri soldi e ciò non gli dispiaceva.Stava per salire la rampa di scale che conduceva al suo studio e si ricordò di aver dimenticato quel mattino una pratica in casa. Il suo appartamento non si trovava lontano e pensò di farci un salto per recuperare le scartoffie.***Sarebbe stato meglio se quell’idea non gli fosse venuta. Sul divano del salotto sua moglie e “un uomo” giacevano intrecciati in una posizione che a un osservatore disinteressato sarebbe parsa un tantino buffa. Ma il legittimo consorte non è mai un osservatore disinteressato, in casi del genere, e perciò non poté cogliere i lati comici della vicenda. Anzi, tutto il suo buon umore svanì e rimase quasi paralizzato alla vista di Marisa e di Franco aggrovigliati come spaghetti serviti scotti.Anche quei due lo fissarono con occhi increduli. Sua moglie si rese conto che era stata una sciocchezza aver permesso a Franco d’entrare in casa. Abbozzò un sorrisetto ipocrita e disse:«Caro, t’è successo qualcosa?». E pensò: “Mio Dio, perché quest’idiota è così in anticipo oggi?”.L’avvocato si avvicinò al divano, muto. Afferrò il grosso posacenere di cristallo che stava sul tavolino da fumo e s’avventò sul giovane. Franco tentò di ripararsi sprofondando nei cuscini a faccia in giù, ma l’avvocato lo colpì più volte alla testa, urlando bestemmie. Nella stanza accorse la domestica, venne su il portiere, qualcuno chiamò l’ambulanza, salì nell’appartamento un mucchio di gente. Marisa ebbe l’emicrania, questa volta sul serio.Ogni cosa fu messa a tacere, nel senso che non fu sporta nessuna denuncia, ma il giorno dopo l’intera città ne parlava. Nei bar, negli uffici, nelle bottegucce degli artigiani, nei salotti, dove al pomeriggio grasse signore si riunivano per giocare a canasta, si parlò dell’avvocato, di sua moglie e dello studente. «Ha pescato la Marisa con un universitario. Non l’ha ammazzato per un pelo». A tutti lo scandalo offrì l’occasione di beffare la noia con succose risate.Marisa ogni sera andava in ospedale a trovare Franco, salutando cordialmente i medici stupefatti.
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