CITTA’: La Baku di Joseph Roth

Creato il 14 novembre 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 14 novembre 2013 in Azerbaijan, Città (in)visibili, Slider with 1 Comment

Pubblichiamo l’incipit del capitolo 8 di Fuga senza fine, libro del 1964 dell’autore della Marcia di Radetzky e della Cripta dei Cappuccini. Un inno alla città di Baku negli anni ’20, quando già il petrolio pompava ricchezza sulle rive del Caspio. Buona lettura.

Ogni sera era possibile vedere nel porto di Baku, in disparte da una folla gaia, variopinta, rumorosa, un uomo che in ogni altra città avrebbe destato l’attenzione di qualche persona, ma che lì passava inosservato e rimaneva avvolto in una profonda, , impenetrabile solitudine. Qualche volta sedeva sul basso muro di pietra che recingeva il mare come un giardino, i suoi piedi pendevano sopra il Mar Caspio e gli occhi non avevano una meta. Solo quando una nave approdava, lo coglieva una visibile eccitazione. Si faceva largo attraverso la fitta folla in attesa e osservava i passeggeri scendere. Si sarebbe potuto credere che aspettasse qualcuno. Ma appena tutto era finito e i facchini turchi tornavano ad appoggiarsi ai muri bianchi o, a gruppi, giocavano a carte, mentre i “phaeton” si allontanavano sferragliando, i vuoti lentamente e quelli pieni con una fretta allegra e fervida, il solitario se ne tornava a casa con un’aria chiaramente soddisfatta, non con l’espressione imbarazzata di chi abbia atteso invano qualcuno e debba ritornarsene solo.

Quando a Baku arrivano le navi, quelle poche navi russe provenienti da Astrakhan, c’è una grande agitazione nel porto. Tutti sanno che non arriverà un piroscafo straniero, né inglese, né americano. Però in lontananza, alla vista del fumo, tutti si atteggiano come se non sapessero che non si tratta di una nave straniera. Perché su tutti i piroscafi sventolano le stesse bandiere di fumo bianco e blu. Anche quando non arrivano piroscafi c’è a Baku una certa agitazione. La ragione sta forse nel terreno vulcanico. A volte si leva quel vento temuto che non trova ostacoli, che soffia sui tetti piatti, sopra la gialla campagna priva di vegetazione, trascina con sé finestre, stucchi, ciottoli e sembra far oscillare anche le torri di trivellazione – che in queste paese rappresentano gli alberi.

Tunda andava al porto quando le navi arrivavano. Pur sapendo che erano i soliti vecchi battelli locali, che al più trasportavano impiegati del paese e qualche raro mercante forestiero di caviale, tuttavia seguitava a immaginare che quelle navi venissero da mari sconosciuti. Le navi sono i soli mezzi di trasporto a cui si attribuiscono tutti i viaggi avventurosi. Non occorre nemmeno che siano piroscafi. Ogni comune imbarcazione, ogni comoda zattera, ogni misera barca da pesca potrebbe avere assaggiato l’acqua di tutti i mari. Per un uomo che sta su una sponda tutte le acque sono uguali. Ogni piccola onda è sorella di altre più grandi e pericolose.

Ormai si era deciso a non aspettar più alcuna sorpresa. La natura taciturna di sua moglie smorzava il fragore del mondo e moderava il corso delle ore. Eppure fuggiva di casa, andava al porto e l’odore di quel piccolo mare lo turbava intensamente. Rientrando, vedeva Alja, che seduta immobile alla finestra osservava la strada vuota. Volgeva appena il capo quando lui arrivava o se c’era un rumore nella stanza, sorrideva, come le fosse accaduta una cosa lieta.

Foto: paukrus, Flickr

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