di Pierluigi Montalbano
Circa 3000 anni fa, nel corso della Prima età del Ferro, in Sardegna, si sviluppano due fenomeni che lasceranno il segno nella storia del'isola: la scultura figurata in pietra a grandezza naturale (Monti Prama) e la realizzazione di piccoli personaggi in bronzo, forse autorappresentazione di una società in trasformazione. Su questi capolavori si è concentrata l'attenzione di molti studiosi ma l'approfondimento ha aperto tanti quesiti. Le risposte fornite dagli addetti ai lavori non sono convincenti e, ancora oggi, divergono notevolmente. Secondo alcuni archeologi si tratta di divinità, per altri sono eroi e sacerdoti ma altri ancora li considerano un mistero ancora da svelare. I siti di ritrovamento sono vari e, purtroppo, spesso le statuette sono fuori contesto, ossia non nel luogo di deposizione primaria. Essendo un bene prezioso per le comunità erano certamente tutelati, e appartenevano a un settore artigianale nel quale si formavano artisti speciali: uomini in grado di forgiare i metalli. Le materie prime certo non mancavano visto che in Sardegna si trovano giacimenti di rame e di altri metalli, ad esempio l'argento, che potevano essere scambiati per l'approvvigionamento dello stagno, l'altro elemento che, insieme al rame nella proporzione di circa 1:10, forma la lega di bronzo.
Nei musei di tutto il mondo questi antichi personaggi sono posti nelle vetrine più importanti, ammirati per la loro bellezza e per il loro significato: la rappresentazione di un importante popolo vissuto 3000 anni fa. L'osservazione diretta di alcuni bronzetti consente di apprezzarne i dettagli, dal vestiario agli atteggiamenti, dagli oggetti fusi a contorno (ceste, vasi, alimenti e animali) ai simboli che facevano parte della tradizione (pugnali, scudi, scettri e mantelli). Fra i tanti quesiti che mi assalgono ogni volta che ho la possibilità di osservare un bronzetto nuragico da vicino, uno in particolare vorrei esaminare con voi in queste poche righe. Una decina di anni fa rimasi sorpreso nel notare un dettaglio non riportato sui libri degli archeologi: la presenza di maschere che alludono a un simbolismo ben conosciuto per chi ha studiato i legami fra comunità e divinità.
Gli uomini antichi, e alcune tribù ancora oggi, pensavano che oltre alle divinità della natura c’erano anche gli spiriti degli antenati e degli eroi.
Durante i riti di culto gli spiriti venivano evocati con la magia dallo Stregone che li chiamava con la danza e con altri gesti. In questi riti erano offerti anche dei doni agli spiriti per non farli arrabbiare. Queste cerimonie, forse inizialmente segrete, sono diventate pubbliche come degli spettacoli di teatro.
Queste prime forme di spettacolo teatrale utilizzavano musiche, mimica e danza, con attori che indossavano una maschera rituale che raffiguarava l’animale, il dio o l’eroe. Le maschere rituali erano realizzate con legno, sughero, paglia o altre fibre, e avevano il potere di trasformare chi la indossava nella divinità, nello spirito che si voleva chiamare. In varie culture le maschere forniscono potere a che le indossa ma se si usano fuori dalle regole o da persone non autorizzate, diventano maligne. Durante i riti propiziatori per l’agricoltura le maschere potevano rappresentare la divinità della pioggia per far crescere bene il raccolto o la divinità della fertilità. Allo stesso modo le maschere di animali, indossate durante i riti prima della caccia, servivano per riuscire a catturare più animali.
C’è anche la maschera per le cerimonie funebri in cui un danzatore indossa la maschera funebre per accompagnare l’anima del defunto nel mondo degli spiriti.
Nel bronzetto della foto in alto, denominato barbetta, è facile notare che non si tratta di una barba bensì di una maschera. Incuriosito da questa particolarità sono andato al Museo Archeologico di Cagliari e ho esaminato uno per uno tutti i bronzetti esposti. Nel corso degli anni la mia convinzione sul fatto che le maschere sono presenti in buon numero nella bronzistica nuragica, e vi invito a prendere in considerazione che le maschere che oggi possiamo vedere nelle sagre isolane, dai Mamuthones alla sartiglia e alle altre manifestazioni identitarie delle comunità sarde, sono riferite a riti arcaici che si conservano nelle forme ma non nella memoria o, meglio, nel significato originario.