di Augusto Benemeglio
Sono dame e cavalieri che danzano coi loro invincibili sguardi visionari per occhi braccia e cuore e si giocano tutto per un sorriso, per un po’ di vivacità, tutto in una sola partita, in un solo salto, in un solo volo, in un colpo solo di dadi, capaci con la voracità delle loro passioni indecifrabili e definitive di dare un calcio in culo a tutto, alla vita bastarda, ai sogni, ai miti, alla fabulazione, alla gloria, alla sete disperata d’amore, e di prendere a sassate quella scheggia infranta che è la propria infanzia, persa su tutte le piste, ma anche di irradiare fasci di energie così potenti e musicali che ci daranno luce e ombra e suoni ancora per chissà quanto tempo, come le stelle morte che noi per tempo immemorabile continuiamo a vedere brillare nel cielo e a sognare.
E volò davvero questa affascinante ragazza borbonica, impeccabile in ogni suo gesto, in ogni sua movenza, per grazia e soavità femminile, anche quando era ciucca e non si reggeva in piedi, e gli amici la portavano a casa (tutti, a Lecce, sapevano dove abitava), o le offrivano ospitalità, perché sapevano che era una bellezza rara, un fiore bianco notturno che si offriva al mondo per presto svanire.
E Claudia, che aveva dentro di sé tutti i gridi d’amore e il canto mortale del Cigno, si fece man mano sempre più invisibile, dissolvenza di se stessa, enigma di lampi di luce e zone oscure, dubbio perenne fra aspirazione al sentimento religioso e sentimento esistenziale, fra storia e metastoria, tra fuga e condanna, fra l’essere carnefici e l’essere vittime, fra l’incertezza e il caos dell’oggi e il triste e melodioso delirio del domani.
Claudia era fatta di tenerezze di petali di rosa, ma anche del rumore sordo della linfa che sale nelle piante tropicali, di fuochi elettrici, di fragili corde barocche, esprit nouveau e forza vitale che si nutre di evocazioni del passato. Era pudica, se non casta, timida, ingenua, sentimentale, a dispetto dei suoi comportamenti fra l’esaltata e la denigrazione sarcastica, o di allegra sfacciataggine nell’affrontare situazioni scabrose, che la faceva apparire talora cinica; quest’angelo beffardo, che fa acrobazie sulle cornici delle cattedrali di Lecce e del Salento, in realtà si portava dietro il suo calvario di sposa barocca
t’avrei lavato i piedi/ oppure mi sarei fatta altissima/ come soffitti scavalcati di cieli/ come voce in voce si sconquassa/ rnando folle ed organando a schiere/come si leva assalto e candore demente/alla colonna che porta la corolla e la maledizione/di Gabriele, che porta un canto ed un profilo/che cade, se scattano vele in mille luoghi
…e i suoi mille volti in silenzio, Madonne della Sconfitta, o dell’Incertezza, Madonne della Nostalgia di una vita già vissuta, da Beatrice minore, un fantasma di nuvole immersa nella sua solitudine, che amava, come la Dickinson (Sarei forse più sola/ senza la mia solitudine), ma che era senza speranza (La speranza non mi è amica), senza avvenire.
Io mi sono sempre fatta in pezzi e tutti i miei versi sono frammenti argentei del mio cuore…. Ardeva le sue passioni in fuoco-porpora, in fuoco-bianco, in fuochi barocchi. Cercava per giorni interi una parola, un aggettivo, non li trovava, ed aveva paura di divorarle, trasformarle nell’aria che respirava, in una veste di pace che non poteva avere:
amore/ t’avrei dato la sorte di sorreggere/ perché alla scadenza delle venti/ due danze avrei adorato/ trenta/ tre fuochi, perché esiste una Veste di / Pace se su questi soffitti si segna/ il decoro invidiato
Era una creatura inadatta a vivere, come De Candia, del resto, come Toma, ma aveva una grazia suprema, come tutte le creature immaginarie, che stanno su questa terra, ma appartengono ad un altro mondo, ad un’altra dimensione, vengono tra noi solo per un breve transito, sono di passaggio … E poi c’è la sua poesia, di cui hanno parlato tanti, di cui si continua a parlare come di una epifania. (“Avrei scritto il mio libro camminando… Ah, ditemi quando ho aperto il mio quaderno!”)
Insomma, qualcosa so di questa musa inchiodata alla vita e alla morte da vocaboli di fuoco, la cui libertà era il legame e il richiamo delle stelle, che amava dire, (con le parole della sua amata Emily), che un pizzico di follia fa bene a primavera perfino al re, ma Dio protegga il clown che riflette questa scena tremenda che è la vita, questo intero esperimento verde che è il giardino della vita, come se fosse suo, come se gli appartenesse. E invece no. Non è così per la vita dei poeti.
L’autentico non c’è in nessun luogo. Non c’è più verità; e su questa terra (ma non esiste nessuna altra terra, nessun altro cielo), non possiamo scoprire nemmeno un raggio di luce
Era sempre vissuta tra i contrari, speranza e disperazione, passione e disprezzo, furia e dolcezza, creatura accesa di estasi e violenza estrema…
Sì, va bene, amigo, ma come mai è diventata un fatto letterario nazionale una poetessa che ha pubblicato in vita un libretto bizzarro (L’inferno minore) che sembra la parodia di Dante, e presso una rivista del tutto sconosciuta? Come e perché ci si è ricordati di Claudia Ruggeri poeta dopo che per tanti anni nessuno ha parlato di lei, tranne il gruppo della “Fondazione Verri” (il poeta con cui in un certo senso Claudia fece sodalizio) e con esiti tutt’altro che entusiasmanti se è vero, come è vero, che le manifestazioni andarono pressoché deserte, secondo la testimonianza resa da Stefano Donno, uno dei suoi biografi? Come è nata questa fioritura di scritti su di lei, di libri, di florilegi, di Concorsi di poesia a lei intitolati? Molti fra i critici maggiori la considerarono (e tuttora la considerano) solo una dilettante, una liceale con qualche velleità poetica, che saccheggiava un po’ tutti i grandi poeti, da Shakespeare a Dante, da Cavalcanti a Melville, da Carrol a Zanzotto, da D’Annunzio a Saba, da Campana a Beckett (Solo oggi i suoi plagi diventano un modus operandi, perché “dire è ri-dire, scrivere è riscrivere, parlare è citare”.
Insomma, perchè ora si parla di Claudia come di una grande poetessa salentina, al pari di Verri e di Toma? Mauro Desiati, ad esempio, dice senza mezzi termini che Claudia Ruggeri scriveva divinamente, che la sua poesia è ricca di arrovellamenti lessicali, di figure estreme, una piccola epifania postmoderna, dove echeggia una semantica inconsueta che mischia parole di origine trobadorica, iperletteraria, dialettale, straniera, aulica, ma anche quotidiana, dice che ha inventato una sorta di nuovo barocco. Dice che entrare nella sua poesia ti fa sentire Alice nel Paese delle Meraviglie, perché scopri tutto un mondo fatto di figure inquietanti, ai bordi dell’onirismo, come se tutta la sua poetica fosse stata maturata in uno stato di veglia, in un grandioso passaggio dal sonno comatoso alla vita.
Questa che ora interroga t’arruescia l’inizio/ t’avviva a questo inverso cui un dio non corrispose/ Tu sei l’oggetto in ritardo/ l’infanzia persa/ su tutte le piste/ l’incrocio rinviato
Desiati dice che la sua “rimane un esempio unico di poesia, una poesia “ingioiellata” come diceva Fortini, ma inedita. Una poesia colma di citazioni e rimandi, “aulika”, fatta di amorevole saccheggio, poesia fatta di lava, sangue e dolore. Poesia che sorprende il lettore, lo meraviglia, per l’uso spregiudicato del dialetto, dei modi di dire, delle citazioni colte, della frasi fatte, delle parole inventate, degli arcaismi e delle parole straniere. Claudia, poetessa della meraviglia”.
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