Con Claudio Abbado sul podio non c’era spazio per equivoci ed ambiguità di tal sorta. La rigorosa filologia non si faceva mai corrompere dall’ambizione di trovare la parola definitiva, come un qualsiasi Indiana Jones dello spartito; lo smisurato talento mandava in frantumi ogni specchio tentatore che gli si parava davanti; lo Spirito della musica agiva in lui e non concedeva alcuna distrazione. Per Abbado, la tradizione non era un fossile da riportare alla luce ed esibire al pubblico, ma un eterno divenire che teneva legate le generazioni. Una formula aperta che gli consentiva di ottenere gli stessi impareggiabili risultati da qualsiasi autore affrontasse, classico, sommerso o contemporaneo, e di passare, senza soluzione di continuità, dalla serenità classica all’inquietudine novecentesca, dal dionisiaco all’apollineo.
Giù dal podio, un’interazione con la società mai ruffiana né arrogante, discreta e incisiva, esercitata attraverso argute e garbate provocazioni e l’incessante attività di missionario della musica come strumento educativo e terapeutico. La sua idea di politica, mai nascosta, non soggiaceva ad imperativi ideologici, ma si esplicava in un senso whitmaniano della democrazia. La sua arte si metteva umilmente al servizio della società, ma come strumento di crescita culturale, civile e spirituale; l’asservimento ad ogni strumentalizzazione di parte, fosse pure quella a cui si sentiva più vicino, veniva rifiutato sdegnosamente. Claudio Abbado credeva fermamente nell’utopia dostoevskiana della bellezza capace di salvare il mondo e tutta la sua febbrile attività ne è stata un’altissima testimonianza.