Cloud Atlas è fatto da almeno sei storie e altrettante epoche: la fine del XIX secolo, gli anni '30 e '70 del XX, il 2012, il futuro e il post futuro. Ogni storia ha i suoi protagonisti, i suoi interpreti, i suoi simboli, vari elementi che di volta in volta ritornano, ma cambiati di segno, in un gioco di travestimenti e mascherate così evidente da essere teatrale, e così riunire sotto un'unica forma narrativa, che nasce e finisce con la tradizione del racconto orale alla Omero, le più svariate forme di racconto create dall'uomo: l'epica, il mito, l'avventura, la musica sinfonica, la narrativa, il cinema con tutti i suoi generi, il noir, il giallo, il fantasy, la farsa... Il film è così una sorta di opera omnia sullo slancio creativo dell'essere umano, con un solo personaggio, un musicista geniale e sfortunato, che non ritorna mai e che significativamente, come il singolo che spezza la catena della moltitudine, si avvicina più di tutti a ciò che gli altri solamente desiderano: si avvicina, cioè, al mistero della vita, a quella forza imperscrutabile che muove le nuvole e che lui, con la sua arte, riprende e riproduce.
Cloud Atlas presuppone l'esistenza di una forza misteriosa che sta al di là delle intenzioni umane, e vede nella creazione artistica - intesa anche solo come racconto notturno per un gruppo di bambini - il solo modo per raggiungerla, toccarla, comprenderla, riprodurla. Il risultato consiste in una materia narrativa resa viva e fluida dalla fusione dell'uno con il molteplice, del singolo con il collettivo, con volti, storie, episodi, gag, svelamenti e sorprese che a ogni nuovo passaggio, familiari e estranee, riconoscibili e ribaltate, confermano il legame con le radici mitologiche della creazione (altro che Dio, insomma, qui si parla del rapporto tra pensiero magico e pensiero scientifico, sciamanesimo e scienza...). Come nel mito, infatti, ogni particolare ritorna e al tempo stesso si genera in qualcosa di diverso, si ripete e si evolve, racchiudendo e al tempo stesso espandendo quello che in realtà è anche il segreto del cinema classico, che racconta storie sempre uguali eppure sempre diverse, immagini morte capaci di generare vita.
Rispetto a The Master siamo un passo indietro, è chiaro. Oppure siamo solamente nell'altra faccia della medaglia, nella resistenza del tutto di fronte all'immanenza del vuoto.