Negli ultimi cinque-sei anni, i Cloud Rat sono stati tra quei gruppi che si sono fatti notare (facendo anche abbastanza parlare di sé) per via di un sound molto personale. Provenienti da Mt. Pleasant, nel Michigan, non appartengono a un genere ben preciso: possono essere etichettati in molti modi, come anche in nessuno, visto che mischiano senza alcun problema hardcore, crust, grind, black metal, powerviolence moderno (Iron Lung, Water Torture, Sea Of Shit), postcore e sludge, con voce femminile. Di band in giro con queste caratteristiche ce ne sono diverse, ma quasi tutte si limitano a un minestrone abbastanza insipido, mentre loro riescono sempre a rendere l’insieme molto coerente, distinguendosi dalla massa di inutili cloni di Converge e Neurosis grazie a diverse uscite molto buone (tra le quali segnaliamo i due lp, Cloud Rat e Moksha).
Questa terza fatica, Qliphoth, esce a due anni di distanza dal precedente lavoro in studio, riproponendo lo stesso mix di cose che li caratterizza, ma portando avanti un discorso: di solito band così difficilmente rimangono statiche, intraprendendo sempre un’evoluzione che le rende anche molto diverse disco dopo disco. Per i Cloud Rat vale lo stesso, ed è difficile non notare che un cambiamento nelle coordinate del loro sound c’è eccome: le canzoni sono sempre più lunghe (la media sta sui due minuti abbondanti), più lente e con riff di chitarra ben più dissonanti. Così come il secondo album durava molto più del primo (30 minuti, contro i 17 precedenti), allo stesso modo questo è ancora più lungo e si attesta sui 40. La line-up è sempre al massimo della forma e la registrazione rimane molto buona, come quelle passate. Si ha l’impressione che la volontà – con Qliphoth – sia quella di investire maggiormente sul lato “sperimentale”, non su quello aggressivo, e questo non è per forza un male. In alcuni brani emergono anche dei discreti rimandi agli Swans di Children Of God (come in “Racoon” o nella conclusiva “Chrisalys”), ma è d’obbligo precisare come nei pezzi brevi e tirati emerga la parte migliore dei Cloud Rat. Da una formazione così è anche lecito aspettarsi una deriva postcore, ma il rischio di trasformarsi nell’ennesimo gruppo da Deathwish è sempre dietro l’angolo. Ci sono dei momenti in cui l’alienazione funziona (“Rusting Belt”) e altri in cui invece sfocia nella noia (la successiva “Udder Dust”), e per fortuna il quartetto americano ancora non ha perso la voglia di premere l’acceleratore e di scrivere brani veloci e diretti, che rispecchiano la parte migliore della sua proposta.
È difficile valutare questo disco: dura troppo e fa alcuni passi falsi che lo rendono meno digeribile delle precedenti uscite, ma rimane pur sempre valido. I fan della band, comunque, non potranno non apprezzarlo e non deluderà le loro aspettative. Certo, Moksha rimane di gran lunga superiore, ma non è il caso di intristirsi. Si spera che i Cloud Rat seguano sempre la via della velocità e diffidino dalle derivazioni eccessivamente “post”. L’attenzione da parte dei media rimane sempre più che meritata.