La Coca Cola sarebbe una trovata tutta nostra. O meglio, di un semplice e ai più sconosciuto aiuto cuoco astigiano: Teofilo Barla.
Di lui c'è rimasto solo un trattato di cucina, parzialmente autobiografico - "Il Confetturiere, L'alchimista, il Cuciniere Piemontese di Real Casa Savoia" - scritto di suo pugno.
Lo scopo reale di tale manoscritto? Riconquistare la stima del suo datore di lavoro, Vittorio Emanuele II, per aver versato la sua "polenta alla moda della Valle D'Aosta" sugli illustri ospiti seduti alla tavola del sovrano durante un pranzo di caccia.
Per quell'episodio, riportato nel libro stesso, Teofilo Barla fu declassato a garzone di cucina perdendo il titolo di maestro pasticcere che la preparazione di una squisita confettura di marmellata gli aveva fatto guadagnare anni prima da Carlo Alberto di Savoia in persona, quando era al suo servizio.
Da un alchimista irrequieto era dunque facile aspettarsi che rompesse gli schemi, che esplorasse nuovi sapori per stupire la casata sabauda e far parlare di sé nelle sale in cui avrebbe potuto metter piede solo per portare i piatti.
Ma non solo. Tra le pentole e gli alambicchi reali, il caro Teofilo sferrò un altro duro colpo alla credibilità americana mettendo insieme gli elementi base per una bevanda identica a quella che di lì a poco, nel 1886, il farmacista statunitense John Stith Pemberton avrebbe lanciato sul mercato come medicinale contro l'ebola: la vecchia, carissima Coca Cola.
Di Teofilo Barla parla anche Lydia Capasso nel suo ultimo libro
Ed è una storia che riporto con piacere, in controtendenza a quel brutto vizio tutto nostro di scimmiottare i costumi e i vezzi americani facendo perdere smalto e fiducia alla nostra capacità di considerarci un popolo all'avanguardia.