Audrey Hepburn
Venerdì 14 febbraio farà ritorno al cinema, solo per un giorno, nelle sale aderenti al circuito Nexo Digital, Colazione da Tiffany, in versione restaurata.
La data scelta dà forma d’ironica profezia all’opinione sul film, diretto da Blake Edwards, espressa al tempo da Truman Capote, autore del libro omonimo (’58) che servì allo sceneggiatore George Axelrod come una sorta di traccia, mutandone totalmente il finale: “Il libro era davvero piuttosto amaro. Il film è diventato uno sdolcinato biglietto di San Valentino per New York (…)” (dal libro celebrativo del 50mo anniversario della pellicola, Breakfast at Tiffany’s, 2010, Sarah Gristwood, edito in Italia da Salani).
Nell’occasione, avendo sempre apprezzato in egual misura, pur nella loro diversità, tanto il racconto di Capote quanto il suo adattamento cinematografico, ripubblico una mia recensione, riscritta in alcuni particolari rispetto all’originaria versione del 2010, nel piacere di condividerla con voi lettori.
***********************************************************************
Da quanto si può intuire attraverso gli spessi occhiali neri, la visione sembra metterla di buon umore. Holly (Audrey Hepburn), questo è il suo nome, vive in un appartamento, i pochi mobili ed una valigia in bella vista fanno intuire uno stile di vita provvisorio.
Intanto nel palazzo arriva un nuovo inquilino, Paul Varjak (George Peppard), scrittore in attesa di migliore fortuna che si fa mantenere da una ricca signora (Patricia Neal). Tanto Paul quanto Holly affrontano la vita con candido disincanto, velato da cinismo nel primo e da una folle e spontanea allegria nella seconda, la quale ha in progetto di sposare un milionario, si fa mantenere da ricchi signori che le offrono cinquanta dollari “per la toilette” (così definisce le sue prestazioni) ed organizza dei party, frequentati dalla New York modaiola del tempo. Ingenuamente, inoltre, la donna fa da tramite per il boss Sally Tomato (Alan Reed), rinchiuso a Sing Sing.
George Peppard, Hepburn e Patricia Neal
Inevitabile quindi che fra i due si instauri, con una certa naturalezza, un particolare rapporto di amicizia ed affettuosa complicità, in particolare man mano che vengono fuori alcuni particolari della vita di Holly, ben celati dall’opportuna maschera della spensieratezza e dal paravento di una gaia incoscienza come stile di vita. Malinconia, paura di vivere, sono infatti sempre in agguato e per scacciare le paturnie non basta fare un giro da Tiffany, specie se il passato ritorna nelle vesti del Dottor Golightly (Buddy Ebsen), veterinario di mezza sposato da Holly dopo essere stata accolta in casa sua insieme al fratello: pur dimostrando affetto e riconoscenza, rifiuta di tornare a vivere con lui, rivendicando la sua scelta di appartenere solo a se stessa. Paul, ormai innamorato di questa donna certo forte e vitale ma egualmente fragile e complessa, ne asseconda le bizzarrie, si affranca dallo status di mantenuto e si rimette a scrivere, cercando di fare ordine nella sua vita e in quella di Holly, la quale è ormai sul punto di sposare un milionario brasiliano, che però, una volta scoperti i traffici di Sally Tomato, la lascerà per paura di uno scandalo.
Ma Holly, forse per la prima volta nella sua vita, ha un ripensamento, scende dalla vettura alla ricerca del gatto che ritrova in un vicolo: anche Paul è lì, pochi sguardi, tutti e tre sono uniti in un abbraccio, preludio di una nuova vita insieme. L’omonimo racconto di Truman Capote da cui il film è tratto, viene adoperato dallo sceneggiatore George Axelrod come un semplice canovaccio, una scelta ulteriormente evidenziata da un finale che volge al classico happy end, permeato di ironia, emotività e romanticismo in bilanciata combinazione, che è poi il leitmotiv dell’intero film. A tutto ciò si aggiunge un certo sarcasmo beffardo che il regista Blake Edwards, fra intuito e gusto figurativo (come le inedite panoramiche della Grande Mela), non manca di sottolineare, seguendo agilmente e con una certa fluidità le linee dello script, il quale è capace di aggiornare con abilità e sagacia la sophisticated comedy alle mutate inclinazioni modaiole ed intellettuali del tempo, ben radicate in una città come New York.
Molto bella, ed estremamente efficace, anche l’interpretazione offerta da Patricia Neal (nell’edizione italiana il suo personaggio è chiamato Liz, in originale 2E, dalle iniziali del suo nome Emily Eustace Failenson), un misto di disincanto, a tratti dolente, e sottile ironia, mentre Mickey Rooney appare nel ruolo, abbastanza stereotipato, quasi da cartoon, di Yunioshi, un giapponese condomino dello stabile, la cui caratterizzazione suscitò non poche polemiche all’epoca. Due premi Oscar nel 1962, migliore colonna sonora (Henry Mancini) e migliore canzone (Moon River, Mancini – Johnny Mercer) e il conferimento del riconoscimento più ambito, l’imperituro apprezzamento del pubblico, per una commedia capace di unire, rara avis, il candore della “bella favola” alla disillusione della realtà quotidiana.