Colette, ingenua (?) e libertina

Creato il 08 marzo 2011 da Sulromanzo

Ogni tanto bisogna – se ne sente le necessità – tornare ai fondamentali. I fondamentali per me sono, ovviamente, francesi, e tra i pilastri, tra le colonne portanti della mia cultura letteraria c’è Colette.

Ah! Colette. Meravigliosa donna, femminista suo malgrado, e libertina – perché assetata di libertà - anzi tempo, scrittrice, giornalista, danzatrice senza veli per diletto, amante appassionata degli uomini ma che provocatoriamente e palesemente non disdegnava le donne nella Francia di fine ‘800 e della prima metà del ‘900.

Leggere o rileggere Colette è per me una boccata d’ossigeno. L’espressione prende un suo secondo significato (che dovrebbe essere il primo?) nelle definizioni naturalistiche dell’autrice che fa scoprire a me, cittadina per la quale un albero è un albero, che un albero non è mai solo un albero ma un salice, un olmo, un cipresso, e quante altre specie di cui non avevo mai sentito il nome prima.

La sua scrittura liscia, precisa, melodiosa, scorre e nelle sue descrizioni non descrittive – Colette non è Zola – sono immagini quelle che ci arrivano. Credo non sia un caso se la trasposizione televisiva dei suoi quattro romanzi incentrati su Claudine, che Edouard Molinaro realizzò nel ’78 (http://www.ina.fr/video/CPA78051382/claudine-a-l-ecole.fr.html ) sia risultata una delle migliori trasposizioni di romanzi su pellicola: tutti i fotogrammi erano già nelle pagine dei libri, e la protagonista talmente ben delineata che non la si poteva immaginare altrimenti se non con le sembianze di Marie Hélène Breillat.

Allora come riossigenarmi? Avrei potuto riprendere in mano per l’ennesima volta, appunto, il meraviglioso Claudine à l’école, che conosco ormai quasi a memoria, che ha fatto parte dei primi, pochi, volumi che sono partiti con me in valigia quando mi sono trasferita. Ma il meraviglioso mondo di Claudine, alter ego della giovanissima Colette, mi appartiene ormai così tanto da non aver neanche più bisogno di prenderlo in mano per leggerlo.

Ho tirato allora fuori dalla libreria La Chatte, che devo aver letto in fondo solo due volte in passato, un passato assai remoto a giudicare dal modo in cui le pagine erano state aperte: non ancora affetta dalle mie ossessioni compulsive, da adolescente ancora non violentavo i libri affinché le pagine risultassero aperte all’inverosimile, financo a staccarle se necessario nelle versioni tascabili scadenti. Ed eccolo questo volumetto antico dalle pagine ingiallite e dalla copertina così “démodée”, con quella gatta grigiastra dipinta perfettamente da un pessimo pittore. Ed ecco di nuovo la scrittura di Colette, terribilmente giusta e così moderna. La Chatte, secondo tutte le fonti, è stato scritto nel 1933, eppure come non credere che sia almeno, e dico almeno, degli anni ’50? Non solo lo stile, ma le situazioni, i personaggi, non sono da dopoguerra avanzato? Questa giovanissima Camille, figlia delle centrifughe Melmart, che ama guidare velocemente, che fin dall’indomani della prima notte di nozze non ha remore a passeggiare nuda davanti al suo novello sposo, che va a dare ordini agli operai che ristrutturano il suo (loro) futuro nido d’amore non ancora pronto, non è una giovane odierna? E il giovane sposo Alain, erede delle seterie Amparat, che si pone più domande sulla sua vita di coppia che sul suo lavoro nella ditta familiare, e soprattutto così attaccato, così innamorato, della sua gatta, non è un personaggio moderno? Per non parlare del “quart de brie” l’alto palazzo soprannominato appunto spicchio di formaggio, bianco, avanguardista, triangolare, arredato in modo minimalista con scrivanie di cristallo e paratie di vetro, nel quale la coppia va a vivere in attesa che la casa d’infanzia di Alain sia pronta ad accoglierli.

E in questo tempo d’estate che si muove lento, Colette racconta di Camille, di Alain e di Saha, la gatta di lui. Saha che Alain ha comprato, non trovato, e cui è legato a tal punto da fargli dire, ad un momento, “Après toi je serais sans doute à qui voudra… À une autre femme, à des femmes… Mais jamais à un autre chat”. (Dopo di te apparterrò probabilmente a chi lo vorrà… A un’altra donna, a delle donne… Ma mai ad un altro gatto). E racconta della gelosia di lei, lei piccola omicida in erba. Ma ha senso essere gelose di una gatta? L’appena ventenne Camille dimostra tutta la sua giovinezza, la sua immaturità. Eppure… Eppure è vero che Alain ama più la gatta della moglie, ed è vero che una donna può avere armi per combattere un’altra donna, ma come fare davanti ad un animale? E l’atroce tentativo di omicidio della rivale non parrebbe paradossalmente meno odioso se questa fosse umana? Sì, e lo sanno sia Camille che Alain. Alain che dovrà fare una scelta, o che forse già l’aveva fatta.

Finito di rileggere La Chatte, ora che faccio? Attingerò ad altro ossigeno con L’ingénue libertine.

Se qualcuno mi dovesse chiedere chi vorrei essere, o essere stata, se non fossi me stessa, senza esitazioni risponderei: Colette.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :