collasso

Creato il 28 agosto 2012 da Francosenia

Domanda: Tu leggi la teoria marxiana della crisi come una teoria del collasso, una teoria che si fonda sull'idea di una sotto-produzione di capitale. Altri marxisti (Grossmann, Mattick) l'hanno fatto prima di te, ma come lettura di Marx è sempre stata minoritaria. I marxisti, al di là delle loro differenze, hanno sempre letto, e leggono ancora, la teoria di Marx come teoria di un'iniqua distribuzione della ricchezza (iniqua distribuzione che oggi trova la sua fonte nella speculazione, nella deregulation, nella ricerca di super-profitti da parte dei mercati finanziari) e rigetta la teoria del collasso. Queste due letture di Marx, sono legittimate dallo stesso Marx? Ci sono due Marx?

Robert Kurz: Il termine collasso, è allo stesso tempo metaforico e suggestivo. E' stato utilizzato, senza che fosse teorizzato, da Eduard Bernstein, al fine di squalificare in blocco la teoria marxiana della crisi, nel contesto dello sviluppo capitalista alla fine del diciannovesimo secolo. L'espressione appare in quello che viene chiamato il "Frammento sulle macchine" nei Grundrisse di Marx, dei quali Grundrisse né Bernstein né i suoi avversari avevano conoscenza, dal momento che sarebbero stati pubblicati molto più tardi. Nel III libro del Capitale, Marx parla più esattamente di un "limite interno del capitale" che finisce per diventare un limite assoluto. La minoritaria "teoria del collasso", formulata in passato da Rosa Luxemburg ed Henryk Grossmann, parla di "insufficiente realizzazione" di surplus-valore (Luxemburg), oppure di "sovraccumulazione" del capitale (Grossmann) che non può essere reinvestita in maniera sufficiente.
Paul Mattick prende velocemente le distanze dalla teoria di un limite oggettivo del capitale, identificando, come fanno i Leninisti, il "collasso" con l'azione politica del proletariato. Con lo stesso Marx, possiamo trovare due livelli della teoria della crisi che non sono stati unificati. Il primo livello fa riferimento alle contraddizioni della circolazione del capitale, che è come dire il gap crescente fra il comprare ed il vendere, anche in riferimento alla sproporzione fra i vari rami della produzione a cui ci si riferisce. Il secondo livello, nei Grundrisse e nel terzo volume del Capitale, viene riferito in maniera più funzionale alla connessione che c'è fra produttività e le condizioni di valorizzazione, e quindi ad un'insufficiente produzione di surplus-valore, sottoproduzione dovuta al fatto che troppa forza-lavoro viene resa superflua. Nelle teorie marxiste delle crisi, sono solamente le contraddizioni della circolazione a giocare un ruolo; queste teorie non affrontano la questione dell'insufficienza della sostanza reale del lavoro. Ma con la terza rivoluzione industriale (N.d.T.: quella microelettronica) è questa seconda che gioca ad un livello più profondo.
La desostanzializzazione del capitale ha raggiunto un punto per cui si è resa possibile una pseudo-accumulazione, senza alcuna sostanza, mediante le bolle finanziarie e il credito di Stato, ed è questa che attualmente sta arrivando al limite. Non si tratta più di distribuzione iniqua di "ricchezza astratta", come posta in gioco, ma della liberazione della ricchezza concreta dal feticismo del capitale e dalle sue forme astratte. Ad ogni modo, molti marxisti contemporanei sono anche a corto della vecchia teoria delle crisi e non fanno altro che adottare il classico e piccolo-borghese punto di vista di una critica del capitale finanziario.
Essi vedono l'origine della crisi non nella reale ed insufficiente produzione di surplus-valore, ma nella soggettiva avidità di profitto da parte degli speculatori.
Essi non mettono affatto in questione il modo capitalista di produzione ed aspirano solo al ritorno della configurazione fordista del lavoro astratto.
Questa opzione non è solamente illusoria, è reazionaria. Rassomiglia, strutturalmente, all'ideologia economica dell'antisemitismo.


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