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Colori e Valori /Possibili Tracciati /Critica estetica a "Gli uomini di Leonida" di Antonio Palumbo

Creato il 26 aprile 2015 da Marianna06

 

 

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Se tu sapessi che cosa è una condotta di vita onorevole, rinunceresti a desiderare i beni altrui: per me è preferibile morire per la Grecia piuttosto che regnare, se il possedere un  regno equivale ad avere il pieno controllo  sui miei compatrioti.

Corre l’anno 225 a.C. ed è Leonida che parla così , in risposta ,al grande Serse, il re dei re dei Persiani che, vistolo ardimentoso e pronto a tutto, lo interroga provocandolo.

Eroismo laico. Non certo nazionalismo becero come qualcuno, digiuno di storia antica, potrebbe immaginare.

Sano eroismo di colui  che ha a cuore il solo bene della propria comunità e non il potere inteso come sopraffazione del sottoposto.

Onore e giustizia sono per chi la pensa a questo modo il fondamento di una vita sociale armonica, dove nessuno si appropria di ciò che appartiene ad altri e ognuno considera il lavoro altrui non un mezzo di sfruttamento, per divenire più ricco a spese d’altri, bensì la modalità di condivisione di un benessere che, allargato,  miri per gradi e con fatica e sudore, nel rispetto delle leggi, allo sviluppo del contesto in questione.

Bellezza, bontà e verità.

Il “bello” dell’agire.  E tutti assieme.  E per il “bene” comunitario.

Unica “verità” codesta che è sottesa alla Storia di tutti i tempi e che l’uomo, invece, dimentica  spesso, distratto dal canto delle sirene.

Quello stesso seducente canto che l’Ulisse omerico seppe, con fermezza e volontà, non ascoltare.

Ma secoli dopo,giunge agli uomini e alle donne di buona volontà,  un altro “messaggio”.

Un messaggio molto “differente”.

Un messaggio ,data l’epoca cruenta,  piuttosto inaspettato.

Diciamo una “Parola” di notevole completamento, che arricchisce, e di parecchio pure, il già detto in precedenza da  culture altre.

O meglio da uomini onesti e saggi, figli delle precedenti culture, vissuti centinaia e centinaia di anni prima.

Il pensiero corre, per esempio, a Socrate come lo abbiamo conosciuto nei dialoghi del discepolo Platone.

Non promette festini e ricchezze da scialo la “Parola”; non parla di vita agiata; include, al contrario, sofferenze,  e,sovente, dolore e lacrime.

La stessa “Risurrezione” non chiuderà i fori dei chiodi o rimarginerà le labbra delle ferite.

E’ decisamente  diretta e non fa sconti a nessuno.

Ne sa qualcosa il giovane benestante, che rinuncia al suo proposito di seguire Cristo perché si sente inadeguato.

Ma, nel nome di un “amore “ molto speciale,la “Parola” promette dignità e riscatto a tutti coloro che al momento vivono una condizione subalterna.

Sono le “parole” del Nazareno, del figlio di Dio, di Colui che è venuto nel mondo per vincere il male e la paura della morte e per concederci di apprezzare tutta la pienezza della vita.

Come?

Con amore e con fede. Uniti. Senza più differenze  di persone e  distinzioni di ceto sociale.

Ricchi e poveri, schiavi e padroni. Quali che siano le culture d’appartenenza.

Ebbene questa premessa, i due corni del dilemma, le due strade da percorrere in base alla sensibilità umana e culturale di ciascuno, portano dritti alla lettura dell’ultima opera pittorica di Antonio Palumbo, successiva alla precedente dal titolo pungente “I crocifissi”, di cui abbiamo già avuto modo, in altra circostanza, di raccontare.

L’autore, un artista complesso intellettualmente quanto amante del realismo alla Pissarro, almeno nelle tecniche, ha pensato di intitolare l’odierna sua fatica “Gli uomini di Leonida”.

Con riferimento all’eroe greco delle Termopili , colui che combatté strenuamente gli agguerriti persiani, con uno sparuto pugno di uomini al suo seguito e, tuttavia, vinse.

Un’impresa che, anche a rileggerla oggi, appare  umanamente quasi impossibile.

Orientando lo sguardo verso l’opera di Antonio Palumbo , osservo immediato un cielo  azzurro, sgombro di nuvole, che campeggia cromaticamente accattivante dalla tela.

E già in questo avverto, con piacere, una nota di ottimismo. Di fiduciosa speranza, che si leva da una terra che, non c’è dubbio, è   dura da dissodare, perché possa sfamare i propri figli.

Terra che è poi quella di Palumbo (le  nostre Puglie), ponte verso Oriente,e nient’affatto differente da come lo sono tutte le terre di tutti i “Sud” del mondo.

Su cui, però, uomini volenterosi (ma anche donne che il Palumbo pare dimenticare), nonostante le percosse della sorte e gli imprevisti del caso, non cessano di combattere la loro  quotidiana battaglia, perché  possano  alla fine giungere  gli attesi frutti.

Sono uomini nudi quelli che compaiono sulla scena. E nudo vuol dire limitazione e caducità.

Il nudo di Palumbo è un nudo metaforico. Un nudo che intriga. Che rimanda ad altro.

Consapevolezza infatti , nel profondo, di possibili sconfitte. E quindi  anche un pizzico di realistica amarezza contro i poteri “forti”, che ostacolano e deviano.

Non tutti i protagonisti, infatti, sono attivi e  in posizione di lavoro.

E non tutti vi appaiono motivati.

Qualcuno è stanco e seduto in terra. Alcuni sono rabbiosi e con rabbia guardano il cielo come se da lì attendessero una risposta incoraggiante. Qualcun altro è, addirittura, sfiduciato.

Ma è tutto naturale. Anzi naturalissimo. Perché, non dimentichiamo  Paolo di Tarso, il quale ci ricorda che “solo chi si umilia può andare verso le cose di lassù, verso Dio (Cfr. Col 3,1-4).

E’ la famosa “strada stretta”.

Tutte le sofferenze degli uomini, in qualunque angolo di mondo essi vivano,in un mondo oggi  come ieri terribilmente disastrato e in subbuglio (e noi sappiamo come) , saranno ripagate per il credente solo se  si avrà fede. Ma fede autentica. Una fede che ha il suo “prezzo”.

L’agnostico punterà, al contrario e dal canto suo, sulla giustizia, sull’onestà d’intenti, sul rispetto, su tutto quel bagaglio di valori, che sono laicamente a fondamento di ogni collettività democratica e  che vanno  parimenti bene per alcune intelligenze.

Entrambi,  credente e agnostico, pur non sapendolo, cercano e vogliono comunque, con forza e medesima volontà, la stessa  “cosa”.

Quel soffio dell’anima che struttura l’esistente. Che cancella le nebbie di un cuore afflitto e dona scatto, vigore.

 Tutto per dare inizio ,qui e ora, alla costruzione di un mondo migliore.

Quello che  appare, attraverso la lotta per il lavoro e per la terra, una lotta di uomini veri, una lotta titanica per la sopravvivenza, che si racconta con immediatezza plastica,il dipinto di Antonio Palumbo  lo esemplifica, senza tema di smentite, egregiamente.

Nella pennellata dell’artista, infatti, non c’è solo questo. Cioè la denuncia sterile. C’è la spinta a non accettare la resa.

Perché egli ama e vive  il “suo” Sud, storicamente e culturalmente. E con esso tutti i “Sud del mondo”.

E le sue pennellate “pensate” sono pari a parole urlate all’orecchio, che restano nella memoria dell’osservatore attento e quasi provano a incidersi nella carne stessa, purché qualcosa presto muti.

Parole difficili da dimenticare.

La tecnica è solo il pretesto per una comunicazione d’impatto. Il mezzo. Il veicolo. Nulla di più.

 

   Marianna Micheluzzi.

 

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