“Colpevole di essere vivo” Vittore Bocchetta racconta la sua vita di sopravvissuto ai lager nazisti

Creato il 13 febbraio 2013 da Robertoerre


( cortesia Edizioni Tamellini, foto Stefan Hanke 2012)  

// Anna Vittorio

“Mi chiamo Vittore Bocchetta, sono nato nel novembre del 1918”.

Su www.testimonianzedailager.rai.it/index.htm comincia così il racconto di Vittore Bocchetta, sassarese di nascita, membro del CLN di Verona, arrestato il 4 luglio del 1944, portato al campo di concentramento di Bolzano e di qui deportato in Germania a Flossenbürg prima e a Hersburg poi. La presentazione della sua autobiografia “Prima e dopo <<Quadri>> 1918-1949”, recentemente pubblicata dall’editore veronese Tamellini, chiude la Settimana della Memoria 2013, organizzata dalla Città di Bolzano per ricordare lo sterminio e le persecuzioni degli ebrei e dei deportati nei campi nazisti. Più che una presentazione è stato un intenso dialogo con Carla Giacomozzi, che da anni segue il progetto “Storia e Memoria: il Lager di Bolzano”, raccogliendo preziose testimonianze e portando nelle scuole le esperienze dei sopravvissuti.

“Secondo le statistiche dell’ANED (Associazione Nazionale ex deportati nei Campi Nazisti) su dieci deportati soltanto uno è sopravvissuto”, ricorda Carla Giacomozzi. Vittore Bocchetta sottolinea fin dall’inizio di non essere presente per sé, ma per chi non è tornato; per quelli che sono morti tra le sue braccia e per i 15.000 che in otto mesi, secondo i suoi calcoli, hanno perso la vita a Flossenbürg.

“Sono qui solo per una serie di circostanze fortuite, non voglio parlare di me, è tutto nel libro”, si schermisce. Lucidamente paragona il modello ideale dei Lager alla Repubblica di Platone; alla base delle rigide gerarchie di ruoli gli iloti, corrispondenti nei Lager ai prigionieri morituri. “Erano previste 183 calorie al giorno, esattamente quelle che servono per sopravvivere 90 giorni; tre mesi di sfruttamento estenuante, fino all’estremo.” Arbeit macht frei era la scritta sul cancello. “In Italia”, dice Bocchetta, “non si sapeva nulla dei Lager. Anche i delatori non conoscevano il terribile destino cui sarebbero andate incontro le loro vittime; Tutti pensavano a campi di lavoro”. 21631 il suo numero; orgoglioso del triangolo rosso di prigioniero politico racconta le spoliazioni, fisiche e della personalità, l’annullamento della volontà, la fame che tutto annienta e fa dimenticare legami e solidarietà, fino all’assuefarsi perfino alla morte. Il suo racconto è fatto anche di persone straordinarie: Teresio Olivelli, brillante intellettuale fascista passato alla Resistenza e deportato, umanissimo capoblocco ucciso per la sua generosità, per il quale è in corso il processo di beatificazione del quale Bocchetta è testimone; il responsabile dell’infermeria, che con un termometro gli consente di fingere una febbre che gli farà passare al riparo i mesi più duri dell’inverno. Dopo la “marcia della morte”, la rocambolesca fuga, il campo di prigionia inglese, sceglie di non seguire gli altri prigionieri a Londra, ed è una scelta salvifica, perché l’aereo sul quale avrebbe dovuto viaggiare precipita nella Manica. Dopo la guerra, non riconoscendosi più nei valori in cui ha sempre creduto e rinunciando a una possibile carriera politica, lascia l’Italia per l’Argentina, il Venezuela, gli Stati Uniti. Girando tra le mani il suo bastone di vigoroso e lucidissimo novantaquattrenne dice: “Sono antico, dei miei compagni sono l’ultimo rimasto. Per quello schiaffo ingiustamente ricevuto in un bar di Verona nel 1941 sono diventato un leader. Il mio incarico era reclutare partigiani, e mandarli in montagna. Il mio nome di battaglia era “il tenente”. Fino al 25 aprile a Verona eravamo in 200 partigiani. Tra questi tanti eroismi, donne staffette che sono state dimenticate da tutti. Il 26 aprile all’improvviso i partigiani erano diventati 25.000. E’ per quello che è accaduto dopo il 25 aprile che me ne sono andato. Io ero e sono rimasto indipendente”.

Indimenticabile il ricordo della prima notte nella baracca dei “pericolosi” nel Lager di Bolzano, con altri compagni, uno dei quali, balbuziente dalla bellissima voce aveva intonato dal Nabucco di Verdi l’aria “Oh mia patria sì bella e perduta…”, immediatamente ripresa dalle altre baracche; il coro degli ebrei in prigionia a Babilonia cantato dai prigionieri bolzanini in una notte del settembre 1944. “Molte volte ho deciso per quello che mi sembrava la morte migliore. Era facile per chi era solo e non era attaccato alla vita. E io ero solo. Ma oggi sono qui. Colpevole di essere sopravvissuto. E sono qui per raccontare.” Nel libro scrive: “Ecco, io che odio andare a piedi non ho fatto altro e non faccio altro, ancora, che camminare, camminare in continuazione, Ma ho vissuto, sono esistito e ho resistito. L’ho fatto incredibilmente più a lungo di quanto vi fossi disposto”. Nella stessa pagina un disegno con tre figure accoccolate a terra e avvolte, quasi ammantate, dalle coperte; una grande mano si protende e sembra afferrare la terra, quasi ad agguantare la vita. Le figure non hanno volto, come non hanno volto le tre figure in copertina; senza maschera, come tutti quelli che sono stati annientati dai Lager, fantasmi che non sono tornati, o che tornando hanno dovuto ricostruire tutto, a partire dalla propria identità, dalla propria persona, intesa in senso etimologico, come maschera portata dagli attori teatrali nel teatro greco. Nel libro altre illustrazioni, intensamente crude e tutte di sua mano, che squarciano il racconto scritto come flash accecanti.

Vittore Bocchetta racconta di aver riscoperto dentro di sé il DNA dell’arte dopo la sua “resurrezione”; per lui, intellettuale, docente universitario, scrittore, “studioso privatista per tutta la vita”, l’arte è affiorata nelle forme della pittura, del disegno e della scultura da sostrati ancestrali, che la famiglia aveva sempre avversato.

A Verona, la città in cui ha deciso di tornare a vivere dopo essere tornato in Italia solo alla fine degli anni ’80, sarà organizzata una mostra antologica della sua variegata arte; le sue opere saranno raccolte per la prima volta al Palazzo della Gran Guardia dal 16 luglio al 5 agosto, prima dell’esposizione che la città scaligera dedicherà a Monet. Nell’arte non si fanno comparazioni. Ma per Vittore Bocchetta è certamente un giusto riconoscimento.



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