Com' è essere squatters a Silverado.

Creato il 13 settembre 2011 da Cristinapatregnani @CristinaOChrome
The Silverado Squatters, 1892. 
Robert Louis Stevenson
Edizione che volete.
Bisogna aspettare all'incirca ottanta pagine (quasi la fine del libro) per trovare la materia prima della penna di Stevenson: gli individui. Poca avventura, quindi, in questo esercizietto di stile, quasi un taccuino di appunti, che ci racconta un viaggio circoscritto e dilatato nell'impervia California del post-colonialismo.
L'eterno reduce dei propri malori Stevenson, a Silverado, nel cuore roccioso della West Coast, c'è stato davvero: cammina cammina, naviga naviga e ancora cammina cammina, è andato fin lì per sposare la sua Fanny, dolce americana  coniugata -con un losco trafficante dedito alle donne- e con figli.  Una traversata atlantica all'insegna dell'amore, dove Robert Louis comincia a prendere confidenza con la materia grezza del suo lavoro: scrive e riscrive i suoi appunti di viaggio, proseguendo all'aria aperta il suo instancabile lavoro di cesellatura del proprio stile, la sua ossessione. "Schermo tra la propria esistenza e la scrittura", lo definisce: quella cosa, insomma, che ti permette di avere qualcuno che ti legga sul serio. Nel frattempo, però, inizia una collezione di bozzetti e ritratti che andranno ad alimentare tutta la sua opera, colorita dai personaggi più indimenticabili della letteratura. Un burocrate della caratteristica, un archivista di casi umani; così potremmo definirlo, mentre lo immaginiamo arrabattarsi con occhio clinico, avanti e indietro,  sui ponti malfermi della "Devonia", il piroscafo di emigranti su cui si era imbarcato.
Giunge così, il nostro eroe a tutti gli effetti, a Nuova York, dove prende la strada per la Cali, che già era un po' la city of sex di Tupac, un bel pentolone di prototipi che più o meno un secolo dopo invaderanno la terra globalizzata. Già, perchè il nostro, è anche un gran precursore: quanti di voi, amanti del vocabolo di moda, non ha passato almeno una giornata a crogiolarsi nei riverberi cool della parola "squatter"? Sì, quelli fighi, squattrinati, malandati, quel povero che fa tendenza, oppure quelli emarginati, brutti, parassiti della società, ultima ruota del carro e chi più ne ha più ne metta. Se volete delucidazioni sull'area semantica, ne potete leggere in questo libro. Io torno a Stevenson, il narratore del disagiato, che un po' emarginato lo era lui stesso, ma aveva anche la stoffa dell'eccentrico. Ebbene, S. arriva in California dove sposa la sua amata, ma la luna di miele nell'umida San Francisco non s'ha da fare; le complicazioni, per i suoi polmoni, potrebbero essere letali. E così ricomincia il tour de force, e i due risalgono le pendici del Mount Saint Helena, la loro personale montagna sacra, fino ad arrivare in questo posto dimenticato da Dio e schifato pure dai minatori.  E che fanno lì? Non vanno alle terme, no. Non ci sono operatori turistici ad accoglierli e nemmeno un amico che lasci loro le chiavi del suo appartamento, che lui se ne torna in città. I due, da bravi avventurieri e clandestini (nasce così la loro storia, non dimentichiamolo), si accampano. Spostano mucchi di polvere, riparano vetri rotti, accendono un fuoco. E si mettono lì, ad ascoltare la natura e a tenerla d'occhio accarezzandola di tanto in tanto, come si fa con i cani belli ma un po' troppo grossi e lunatici. Robert Louis Stevenson era uno squatter, un accampato, un povero "di razza bianca purissima", "insofferente al lavoro"; si è mescolato con la categoria che descrive, al punto da farne un'ammissione di colpa. C'è da far vergognare tanta letteratura da tavolo che non ne avete idea; e la grandezza dello "zingaro scozzese" sta nell'aver scovato, vissuto e raccontato allo stesso tempo un fenomeno antropologico, un paesaggio e un'avventura. Tutto questo in sole 150 pagine, si diceva.

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