Com’è nata la mia partecipazione a Autoesorcismi per Pitture Nere

Creato il 03 maggio 2014 da Bruno Corino @CorinoBruno
Quando ricevetti un giorno un’email da Mauro Banfi detto IlMoscone, nella quale m’invitava a partecipare con un racconto al Progetto della Quinta del Sordo, non esitai un attimo a mandargli il mio Ultima notte di cielo stellato di Vincent Van Gogh. Questo racconto aveva segnato nella mia vita di narratore una svolta: ero passato dalla fase descrittivista alla fase espressionista. Dedicai a ciascun colore dell’arcobaleno un miniracconto “espressionista”, nello spirito della litweb, cioè narrando in modo breve intenso ma fortemente suggestivo.
Come scrissi in una mia prefazione, non volevo più con le parole descrivere, non volevo più usare i “sostantivi” come linee, i “verbi” come piccoli tratti che uniscono le linee, e gli “aggettivi”, gli “avverbi”, ecc. come colori per riempiere gli spazi creati dal tracciato delle linee chiuse. Mi ero accorto che sino a quel momento avevo proceduto come un pittore quando si pone con il suo cavalletto e i suoi pennelli davanti a una “realtà” o a una immagine, cioè nell’illusione di poter ritrarre una realtà in tutte le sue fattezze, in ogni suo dettaglio. Non mi rendevo conto o non avevo ancora piena consapevolezza di quanto di metafisico conservasse un atteggiamento di questo tipo. L’illusione metafisica o la sua prospettiva consisteva nell’idea di credere che la realtà di per sé fosse già bella e costituita nella sua essenza o nella sua struttura, e che compito dell’artista o di chi la ritraesse fosse di limitarsi a “mimarla” mantenendosi il più fedele possibile alla “visione” che la realtà delle cose gli offriva.Con il racconto dedicato a Van Gogh decisi di raccontare usando soltanto “colori”, evitando dunque di usare tratti e linee. In altri termini, quando mi ponevo davanti al foglio bianco, pensavo intensamente al colore che avrei voluto usare, e, trovato, l’incipit del racconto, cominciavo a raccontare senza avere in testa né una trama né un intreccio. Se prima partivo dall’immagine, presente alla mente, per descrivere una realtà (vissuta, ma trasfigurata); con questi racconti, invece, sono partito da una realtà interiore (né vissuta, né trasfigurata) per approdare a un’immagine. A questo punto, l’immagine “creata” o “evocata” (e non più “riprodotta”) mi suggeriva a sua volta altre immagini. Così facendo, e quasi in modo suggestivo, sotto l’impulso della scrittura, cominciava a emergere una sequenza di immagini nella quale non era possibile stabilire tra loro nessun rapporto gerarchico, poiché ciascuna immagine non appariva come la conseguenza dell’immagine precedente. Tra di loro si stabiliva un rapporto di vicinanza o di affinità evocativa, o di semplici assonanze. Inoltre, il ritmo con cui procedevo nella loro costruzione non era più deciso dal tipo di sequenza che la narrazione aveva messo in atto, in quanto, appunto, mancava ogni rapporto gerarchico, bensì era deciso dal “tratto” con cui avevo iniziato a stendere il colore sulla pagina. A questo punto potrei anche affermare che non sussisteva più neanche uno sviluppo narrativo, poiché non narravo eventi che si sviluppassero in una sequenza lineare, consequenziale; le immagini si presentavano infatti nel loro ordine sparso, pertanto era compito del lettore dar loro un senso o un significato.Dunque, tornando al Moscone, è chiaro che quando mi propose di partecipare con un mio racconto al progetto ispirato alla Quinta del Sordo di Francisco de Goya y Lucientes (1746 - 1827), quasi ci vidi un segno del destino. In questo ciclo di pitture a prevalere era il color nero, lo stesso colore di cui sono composti i nostri incubi e le nostre paure ancestrali. La notte è il momento in cui la nostra ragione deve abbandonare il campo, per lasciare spazio ai nostri visitatori notturni. Neanche in questo ciclo di Goya esiste una sequenza ordinata: le immagini pittoriche procedono quasi per associazione, come accade nell’attività onirica. In ciascuna delle 14 pitture nere, ogni spettatore può proiettarvi le proprie ossessioni o le proprie fobie. Ma il dato più interessante consiste nel fatto che Goya realizza questo ciclo di pitture nel momento in cui acquista la sua piena libertà espressiva, quando cioè non è più tenuto a soddisfare le richieste dei suoi committenti.Volendo onorare, dunque, un artista come Goya, non potevo che accostarlo a un altro artista come Van Gogh, un altro che aveva tradotto la sua libertà espressiva in una personale visione religiosa. Ed è così che idealmente e pittoricamente ho voluto unire i destini di questi due straordinari visionari dei nostri tempi.