Come scrissi in una mia prefazione, non volevo più con le parole descrivere, non volevo più usare i “sostantivi” come linee, i “verbi” come piccoli tratti che uniscono le linee, e gli “aggettivi”, gli “avverbi”, ecc. come colori per riempiere gli spazi creati dal tracciato delle linee chiuse. Mi ero accorto che sino a quel momento avevo proceduto come un pittore quando si pone con il suo cavalletto e i suoi pennelli davanti a una “realtà” o a una immagine, cioè nell’illusione di poter ritrarre una realtà in tutte le sue fattezze, in ogni suo dettaglio. Non mi rendevo conto o non avevo ancora piena consapevolezza di quanto di metafisico conservasse un atteggiamento di questo tipo. L’illusione metafisica o la sua prospettiva consisteva nell’idea di credere che la realtà di per sé fosse già bella e costituita nella sua essenza o nella sua struttura, e che compito dell’artista o di chi la ritraesse fosse di limitarsi a “mimarla” mantenendosi il più fedele possibile alla “visione” che la realtà delle cose gli offriva.Con il racconto dedicato a Van Gogh decisi di raccontare usando soltanto “colori”, evitando dunque di usare tratti e linee. In altri termini, quando mi ponevo davanti al foglio bianco, pensavo intensamente al colore che avrei voluto usare, e, trovato, l’incipit del racconto, cominciavo a raccontare senza avere in testa né una trama né un intreccio. Se prima partivo dall’immagine, presente alla mente, per descrivere una realtà (vissuta, ma trasfigurata); con questi racconti, invece, sono partito da una realtà interiore (né vissuta, né trasfigurata) per approdare a un’immagine. A questo punto, l’immagine “creata” o “evocata” (e non più “riprodotta”) mi suggeriva a sua volta altre immagini. Così facendo, e quasi in modo suggestivo, sotto l’impulso della scrittura, cominciava a emergere una sequenza di immagini nella quale non era possibile stabilire tra loro nessun rapporto gerarchico, poiché ciascuna immagine non appariva come la conseguenza dell’immagine precedente. Tra di loro si stabiliva un rapporto di vicinanza o di affinità evocativa, o di semplici assonanze. Inoltre, il ritmo con cui procedevo nella loro costruzione non era più deciso dal tipo di sequenza che la narrazione aveva messo in atto, in quanto, appunto, mancava ogni rapporto gerarchico, bensì era deciso dal “tratto” con cui avevo iniziato a stendere il colore sulla pagina. A questo punto potrei anche affermare che non sussisteva più neanche uno sviluppo narrativo, poiché non narravo eventi che si sviluppassero in una sequenza lineare, consequenziale; le immagini si presentavano infatti nel loro ordine sparso, pertanto era compito del lettore dar loro un senso o un significato.
Com’è nata la mia partecipazione a Autoesorcismi per Pitture Nere
Creato il 03 maggio 2014 da Bruno Corino @CorinoBrunoCome scrissi in una mia prefazione, non volevo più con le parole descrivere, non volevo più usare i “sostantivi” come linee, i “verbi” come piccoli tratti che uniscono le linee, e gli “aggettivi”, gli “avverbi”, ecc. come colori per riempiere gli spazi creati dal tracciato delle linee chiuse. Mi ero accorto che sino a quel momento avevo proceduto come un pittore quando si pone con il suo cavalletto e i suoi pennelli davanti a una “realtà” o a una immagine, cioè nell’illusione di poter ritrarre una realtà in tutte le sue fattezze, in ogni suo dettaglio. Non mi rendevo conto o non avevo ancora piena consapevolezza di quanto di metafisico conservasse un atteggiamento di questo tipo. L’illusione metafisica o la sua prospettiva consisteva nell’idea di credere che la realtà di per sé fosse già bella e costituita nella sua essenza o nella sua struttura, e che compito dell’artista o di chi la ritraesse fosse di limitarsi a “mimarla” mantenendosi il più fedele possibile alla “visione” che la realtà delle cose gli offriva.Con il racconto dedicato a Van Gogh decisi di raccontare usando soltanto “colori”, evitando dunque di usare tratti e linee. In altri termini, quando mi ponevo davanti al foglio bianco, pensavo intensamente al colore che avrei voluto usare, e, trovato, l’incipit del racconto, cominciavo a raccontare senza avere in testa né una trama né un intreccio. Se prima partivo dall’immagine, presente alla mente, per descrivere una realtà (vissuta, ma trasfigurata); con questi racconti, invece, sono partito da una realtà interiore (né vissuta, né trasfigurata) per approdare a un’immagine. A questo punto, l’immagine “creata” o “evocata” (e non più “riprodotta”) mi suggeriva a sua volta altre immagini. Così facendo, e quasi in modo suggestivo, sotto l’impulso della scrittura, cominciava a emergere una sequenza di immagini nella quale non era possibile stabilire tra loro nessun rapporto gerarchico, poiché ciascuna immagine non appariva come la conseguenza dell’immagine precedente. Tra di loro si stabiliva un rapporto di vicinanza o di affinità evocativa, o di semplici assonanze. Inoltre, il ritmo con cui procedevo nella loro costruzione non era più deciso dal tipo di sequenza che la narrazione aveva messo in atto, in quanto, appunto, mancava ogni rapporto gerarchico, bensì era deciso dal “tratto” con cui avevo iniziato a stendere il colore sulla pagina. A questo punto potrei anche affermare che non sussisteva più neanche uno sviluppo narrativo, poiché non narravo eventi che si sviluppassero in una sequenza lineare, consequenziale; le immagini si presentavano infatti nel loro ordine sparso, pertanto era compito del lettore dar loro un senso o un significato.