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COME ALL’ORIGINE DELL’ARIA di Filippo Davoli

Creato il 17 novembre 2011 da Viadellebelledonne

COME ALL’ORIGINE DELL’ARIA di Filippo Davoli

Filippo Davoli- Come all’origine dell’aria (L’arcolaio,2010)

Nota critica di Lucetta Frisa

Le copertine sono importanti. Invitano alla lettura o respingono. Oppure danno un’immagine deviata rispetto al testo che aspetta l’attenzione del lettore. Questa di Come all’origine dell’aria, l’ultimo libro di poesia di Filippo Davoli (L’arcolaio, 2010), mostra un bellissimo bambino dallo sguardo intenso e lievemente interrogativo: è una foto in bianco e nero che ci riporta a un tempo quasi fiabesco, ma che fiabesco non è : è il tempo dell’infanzia – nulla di più imprescindibilmente reale – ma, appunto perché irrimediabilmente lontano, assume un’aria originaria, in cui il poeta fa iniziare tutte le cose. Il bambino della copertina è sinceramente se stesso. È il suo autoritratto da piccolo, degno di un dipinto di Goya, maestro inarrivabile nel cogliere l’anima infantile. Ma non è solo della propria infanzia che Filippo intende parlarci direttamente o indirettamente, infanzia in cui la figura determinante è sempre la madre, ma del suo dramma tutto singolare di un bambino che di madri ne ha due : c’è l’assenza della prima,quella carnale, che lo abbandonò senza spiegazioni appena nato,e dopo, l’amorosa presenza della seconda che lo raccolse e allevò: si tratta comunque e sempre d’amore – incontrato, trovato, vissuto e poi perduto un’altra volta( la seconda madre è scomparsa diversi anni fa). Questo amore Filippo l’ha voluto trasmettere, in eredità matri-patriarcale ad altre infanzie e adolescenze più travagliate della sua, entrando nella carne della poesia (una frase che spesso gli ho sentito dire). Non poteva comportarsi che così – con limpida coerenza di comportamento e convinzione. Ad un certo punto della vita, a Filippo, è parso troppo riduttivo occuparsi solo di poesia, scriverne, leggerne e pubblicarne – intendo la sua e quella di altri poeti. Ricordiamo in primis, la sua indimenticabile rivista “Ciminiera”, una voce nuova e ardente nel panorama sempre un po’ scontato delle riviste di poesia, come indimenticabili furono le serate estive a Macerata, all’interno di un bel cortile cinquecentesco, allo scopo di fare incontrare i poeti più stimolanti e avviare altrettanto stimolanti dibattiti tra loro e il pubblico. Poi fu naturale, per lui, passare all’editoria (Biblioteca di Ciminiera) facendo nascere una collana di piccoli libri preziosi di poeti importanti, ma non abbastanza noti allo scarso pubblico dei lettori di poesia, come il caro Alberto Cappi e Leonardo Mancino che ci hanno lasciato, e i viventi Fedeli, Ritrovato, Garufi, oltre a quelli di narrativa e saggi critici (vedi,ad esempio, dell’ispanista Giovanni Cara), etc.. Un’esperienza che, a una certa svolta della vita, Filippo ha deciso di sospendere per occuparsi concretamente di ragazzi extracomunitari e fare della poesia vita e della vita poesia. Portatori di poesia dolorosamente umana, assolutamente sprovveduti delle tecniche di scrittura, stranieri alla lingua italiana ma non stranieri alle durezze del quotidiano e a quelle dell’orfelinato e in genere dell’emarginazione. Ecco che il poeta (e l’uomo) stimola la loro creatività, allo scopo di dar loro una possibilità di espressione e una dignità, facendo emergere, sul bianco della pagina, come perle lucenti, frasi ascoltate, lampi di riflessioni, esperienze vissute sulla pelle dei suoi amati ragazzi-figli.

Un anno fa sono partito da casa

E no posso chiamare se non ho soldi

Da mandare a mia madre. Che le direi?

Ma non i torno, non ci tornerò più

A salutare i miei monti- lei, che pensava

Che in tutto il mondo si parlasse persiano

(Alì)

In questa stanza metteremo mio padre

E mia madre. Litigheranno sempre,

e così saprò che nulla si è interrotto

da quando con mio fratello siamo partiti.

(Almarin)

Se mio fratello mi vuole vado con lui.

Sennò in un altro spazio,da dove guardare

L’aria. Ma dopo torno, qui ho gli amici.

O magari non torno,non lo so.

Mi piace andare per il bello di andare.

(Alban)

Lui, Filippo, non ha che da “rivedere” i loro scritti – sul piano sintattico e grammaticale, lasciar cadere queste parole in mezzo all’aria per dar loro respiro e volo. Se non faceva così, chi di noi avrebbe mai potuto conoscere l’anima di Klajdi, Alì, Edison, Almarin, Ahmed, Es Haqq, Daniel, Lim, Abdul, Dritan, Fathien,Lahzar, Boubakar, Alban, Farman, Amin, Mohamed, Florian, Asif, Alfred, Wei Wei, Nii Adama, Gledon, Malik, Leonard, Mostafa, Modou, Guilou,Thierno, Abass,Akrem, Aziz ?(e scusate se li ho citati tutti ).

L’amore è un istante che non passa- un verso bellissimo del maestro Piero Bigongiari di cui Filippo ha introiettato il messaggio. E lui, coi suoi versi, sembra rispondergli:

Perché il cuore non è

l’ombra che si distende nel vento.

E’piuttosto parola

(l’occhio apre la luce,dentro

scopre una malìa inattesa,la conduce

per nebbie e profezie,

voce,destini).

Non temere, vorrei dirti.

Non avere paura del tuo sentire,

ora che il freddo sembra spegnere il fiato

e il silenzio non preludere ad altro

che a una sciagura.

E il poeta dà inizio così alla seconda e terza parte del libro che altro non è che un lungo monologo interiore, rivolto alla prima ma anche alla seconda madre dato che le due figure femminili si confondono nel suo cuore e chi legge avverte solo l’offerta di una grande preghiera, di un accorato a volte drammatico vocativo a colei che detiene le chiavi della vita, lo spazio della sacralità autentica. Forse Filippo suggerisce a noi come a se stesso, di non avere paura del sentimento, di vivere quindi l’amore fino in fondo,compresa l’inseparabile sofferenza che ne deriva. In queste pagine il poeta ha inteso riproporre alcune poesie già precedentemente apparse in altri libri, ma la vibrazione- dato che solo di questa si tratta, la vibrazione emozionata ed emozionante che unisce tutte le sue poesie- è invariabilmente la stessa.

Vorrei che le parole che dicemmo

E che scrivemmo sparissero nel fuoco,

arse dentro l’amore.

Trasfigurati anche i volti,fatti cellule

della mia stessa pelle.

Il respiro di ognuno mi corre nel sangue,

ogni momento avverto che ritornano.

Aprimi all’eternità già da questo

preciso battito. In esso mi accompagna

la cecità visionaria dell’ascolto.

Di questo libro tanto speciale hanno detto magnificamente Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri e Andrea Ponso introducendo ciascuno le diverse parti di cui è composto e assumendosi il compito di entrare nelle pieghe della poetica di Davoli, di modo che il lettore possa venirne illuminato.

I versi stessi di Filippo non possono non concludere in bellezza la mia breve nota.:

Vorrei dunque sparire lievemente

Pur continuando a vivere. Restarmene

Nel dono dei segreti quotidiani,

dove tutto significa.



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