Avigliana si sdraia nella conca morenica fra Rivoli ed i monti della Val di Susa.C’è un Castello, di cui oggi resta solo più un abbozzo di mura sgretolate che ricordano la tonsura di un frate, seduto su una collina tondeggiante, sulle pendici della quale si arrampicano chiese ed edifici medioevali. C’è un dedalo di vicoli di porfido, di case e porticati che sono testimoni di diversi secoli. Alberi di cachi occhieggiano dalle mura di cinta; e poi c’è uno spiazzo di fronte alla chiesa di San Pietro, che pare una terrazza affacciata sul mare di edifici di pietra e terracotta.Qui c’è anche il vecchio ospedale, dove io sono nata: mi piace dire che la prima cosa che ho visto è stato il Medioevo, con il suo incanto fatto di ombre e misteri; per questo, forse, l’ho sempre amatoDi notte la pietra si trasforma in velluto blu e le luci dei lampioni la sfumano qua e là in oro. La vegetazione attorno al Castello si fa nera ed avvolgente. Nei miei ricordi questo è il mio teatro preferito per l’introspezione, per le parole che sgorgano una dietro l’altra fino a diventare discorsi profondi, oppure confidenze su sogni da realizzare.Al tramonto si vede la Sacra di San Michele da lontano, in alto in cima ai monti, traslucente per i raggi del sole contro il cielo azzurro, che la fan sembrare un angelo custode. Il Castello china la testa umile al suo cospetto, e dagli occhi sventrati delle sue mura lascia intravedere due specchi dorati, che, mentre il sole si sta chinando, ti accecano e ti incantano: sono i due Laghi.Ma c’è chi dice che un tempo, guardando da questo stesso punto, dove forse il Castello non sorgeva ancora, non avremmo visto acqua.
C’è chi dice che, un tempo, il vecchio borgo di Avigliana non si inerpicasse solo sulla collina, quasi come se fosse proteso ad adorare il Castello, o come se cercasse riparo sotto la sua ala protettiva: c’è chi dice che al posto dell’acqua ci fossero case, strade, botteghe; un piccolo borgo attivo ed operoso.Sul dorso della collina c’era solo una casetta, umile e solitaria, dove abitava un’anziana donna che amava rimanere un po’ distante dalla folla e dal suo caos, dalle sue follie spesso confuse con la normalità. Lei cercava il silenzio, e forse, fosse nata in un’altra epoca, avrebbe anche apprezzato la compagnia delle storie di carta – però, in quest’epoca indefinita, ma decisamente lontana, i libri non esistevano ancora e la capacità di leggere era un privilegio di pochi. Di certo però doveva avere dei gatti.Quasi certamente, anche, sarà stata additata come un’eccentrica dai suoi compaesani. Ma il suo voto di solitudine non era dettato da astio e sfiducia nei confronti degli esseri umani: ci sono persone che si distaccano dal mondo per riuscire ad amarlo meglio, per raggiungere un equilibrio ed una serenità interiori che fan sì che certe meschinità, certi egoismi ti cadano di dosso senza grossi sforzi, per non appartenerti più, scivolando via come la pelle di un serpente in muta.Forse anche lei era una di queste persone.
Un giorno nel borgo arrivò un viandante.Vestito di stracci, appoggiato ad un bastone, i piedi piagati dal lungo andare, bussava ad ogni porta, ad ogni bottega per chiedere la carità di un pezzo di pane, di una ciotola di zuppa.Ma ogni porta era un rifiuto: sgarbato, derisorio, indifferente o diplomatico; seppur indossando maschere diverse, era sempre un “No” che gli veniva presentato, e il suo stomaco continuava ad essere vuoto. In tutta Avigliana non aveva trovato nessuno disposto a condividere con lui un po’ di cibo.Gli Aviglianesi di quell’epoca lontana ed ignota erano forse molto pragmatici, dei capitalisti ante litteram d’oltranza, e ritenevano che il pane andasse guadagnato. O forse erano solo indifferenti, troppo indaffarati, quasi degli automi, non in grado di rendersi conto di cosa gli stesse succedendo d’intorno - non al punto di riuscire a provare empatia per chi si trovava in stato di bisogno.E’ così che li dipinge questa leggenda, è così che li vede il pellegrino.
Ma la vecchietta solitaria della collina è diversa. Lei è esente da tutto questo, dai meccanismi tritacarne della frenesia del fare: lei non ha fretta, vive ai ritmi della natura; non ha rumori che la assordano, è immersa in un silenzio che parla. Non è indifferente, perché ha imparato ad aprire gli occhi, a vedere veramente le persone; e non ha problemi a condividere il proprio pane con il vagabondo, perché ha imparato a distinguere il necessario dal superfluo.Così, quando forse la speranza l’aveva abbandonato, il pellegrino riesce a trovare del cibo ed un tetto sotto il quale trascorrere la notte.
Ma, in realtà, non era questo quello di cui gli importava.L’occhio si riesce ad ingannare facilmente, e, se nelle fiabe un ranocchio si può trasformare in un splendido principe innamorato dimostrandogli gentilezza e buona disposizione d’animo, anche il povero viandante di questa leggenda viaggiava in realtà sotto mentite spoglie.E di fatto non aveva bisogno né di cibo né di riposo: il suo obiettivo era solamente quello di mettere alla prova la generosità e lo spirito caritatevole degli Aviglianesi; dal momento che la visione cattolica del Divino coincide in maniera prevalente con giudizio e punizione.
Quando il giorno dopo la vecchina si sveglia, non trova più il viandante; ma non riesce a fare in tempo di stupirsi per la sua assenza, perché, non appena mette piede fuori dalla sua casupola, rimane a bocca aperta per qualcosa di decisamente più incredibile.
Avigliana non esiste più.Dalla sua collina l’anziana donna non vede più case e botteghe, ma solo acqua, abbagliante acqua salmastra.
Col tempo, Avigliana fu ricostruita - arroccata sulla collina dove abitava l’anziana donna che per il suo buon cuore si salvò.Non si sa se il misterioso viandante tornò a fare visita ai nuovi Aviglianesi, e se loro riuscirono a dimostrarsi più generosi dei loro predecessori - grazie al monito dei due laghi costantemente sotto i loro occhi, o semplicemente per spontaneo spirito caritatevole.Non ci sono testimonianze storiche o ritrovamenti archeologici che possano attestare la veridicità di questa storia: ci rimane solo un detto, che continua ad essere tramandato di generazione in generazione.
Vijan-a vilan-aper sua buntà a l'è sprufundà(Avigliana villana, per la sua bontà è sprofondata)