L’ha scattata nel 2009 nel deserto dei deserti, il Teneré, nei pressi dell’oasi nigeriana di Dirkou, da dove hanno luogo le partenze per la Libia. Non tutti riusciranno a partire, molti, quelli rimasti senza un soldo nelle tasche resteranno “stranded”, intrappolati, ridotti praticamente in schiavitù, sperando di racimolare quel tanto che serve a proseguire il viaggio.
Ma sono le fotografie che valgono più di mille parole, come si vede con la deforestazione che avviene per facilitare la preparazione dei terreni per le piantagioni di palme da olio o di canna da zucchero. Il progetto interessa trecentomila ettari e comprende la realizzazione di un canale per prelevare l’acqua destinata all’irrigazione da un fiume. L’area interessata è confinante con un parco nazionale reputato il secondo più grande luogo di sosta in Africa per le grandi migrazioni degli animali. Nella seconda si mettono a dimora fittoni di canna da zucchero per la quale è prevista una piano di espansione di ventimila ettari, tutti destinati alla produzione di biocarburanti. Un giovane lavoratore prepara i peperoni che saranno spediti negli Emirati per rifornire esclusivamente la catena degli hotel Hilton.
Parlare di Land Grabbing significa anche vedere come le organizzazioni internazionali, vedi l’OMS e la FAO, siano sempre di più preoccupate per l’impatto che hanno gli allevamenti industriali di bestiame e lo sfruttamento delle terre coltivabili con l’uso intensivo di monocolture e conseguentemente sulla possibilità o meno di nutrire il mondo. Il direttore esecutivo dell’International Water Institute di Stoccolma, recentemente ha dichiarato “Gli animali vengono nutriti a cereali, e anche quelli allevati a pascolo richiedono molta più acqua rispetto alla produzione diretta di grano per il consumo umano. Ma nei paesi sviluppati, e in parte in quelli in via di sviluppo, i consumatori richiedono ancora più carne [...]. Ma sarà quasi impossibile nutrire le future generazioni con una dieta sul genere di quella che oggi seguiamo in Europa occidentale e nel Nord America”.
Per comprendere in pieno il senso di queste dichiarazioni vi invitiamo a leggere l’interessante e istruttivo dossier di una cinquantina di pagine dal titolo Allevare gli animali: le conseguenze sull’ambiente e sulle persone. Scaricabile dal sito www.eat-ing.net è un’iniziativa/inchiesta di educazione ambientale rivolta alle scuole secondarie di primo e secondo grado e caratterizzata da un focus sulla sostenibilità alimentare. Un progetto finanziato da Fondazione Cariplo e sviluppato da Fondazione Eni Enrico Mattei in collaborazione con il Centro di Studi per la Storia dell’Editoria e del Giornalismo.
Intanto ve ne proponiamo un piccolo stralcio che sottolinea i due grandi temi legati agli allevamenti di bestiame, al consumo dell’acqua e, importantissimo, il grande impatto sui cambiamenti climatici e sull’effetto serra.
Dopo un’attenta lettura delle cinquanta paginette chissà poi quanti di voi si convinceranno a diventare vegetariani…
Il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d’allevamento). Gli allevamenti consumano una quantità d’acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora.È stato calcolato che per produrre cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media in un anno. Per un chilo di proteine animali occorre un volume d’acqua 15 volte maggiore di quello necessario alla produzione della stessa quantità di proteine vegetali. L’aumento del consumo di prodotti animali ha anche considerevoli ripercussioni ambientali e ha un ruolo significativo nell’ambito dei cambiamenti climatici, essendo responsabile del 18% delle emissioni atmosferiche mondiali del gas a effetto serra. Questa quota è addirittura superiore alle emissioni generate dai trasporti in tutto il mondo!! In particolare, l’allevamento produce il 9% delle emissioni globali di anidride carbonica, ed è responsabile anche del 37% del metano complessivamente prodotto dalle attività dell’uomo: questa quota è emessa per lo più dai ruminanti e dalla fermentazione della cellulosa che avviene nei loro stomaci. Il metano è 23 volte più potente dell’anidride carbonica nel surriscaldare la Terra. Inoltre, la produzione animale contribuisce per il 65% al protossido d’azoto che complessivamente l’uomo introduce in atmosfera (N2O ha un potenziale di surriscaldamento che è 296 volte più forte della CO2!). La maggior parte del protossido emesso dagli allevamenti deriva dai reflui zootecnici, ossia dal letame e dal liquame prodotto dai capi di bestiame, e dai fertilizzanti distribuiti sui suoli coltivati per nutrire gli animali allevati: infatti si può dire che la zootecnia sia responsabile del 75-80% delle emissioni di ammoniaca legate all’attività antropica, che causano piogge acide e acidificazione degli ecosistemi. In zootecnia, il passaggio in atmosfera dell’ammoniaca è in particolare provocato dall’applicazione del letame sui campi coltivati.
Entro il 2025 oltre il 60% della popolazione mondiale vivrà in condizioni di carenza idrica. Con la popolazione mondiale avviata a toccare i nove miliardi di persone nel 2050 su quali riserve idriche si potrà contare?
Il settore zootecnico contribuisce significativamente al consumo di acqua e al suo inquinamento in modo sia diretto che indiretto: l’8% del consumo idrico mondiale è riguarda il settore zootecnico, che utilizza acqua principalmente allo scopo di irrigare i campi coltivati per produrre mangimi.
Per ottenere 1 kg di manzo servono 15 mila litri d'acqua! Per 1 kg di pollo, 3.500 litri, mentre per la produzione di cereali di acqua ne serve di meno, 3400 litri per il riso, 2 mila per la soia, 1400 per il grano, 900 per il mais, 500 per le patate…
Ma il settore dell’allevamento risulta anche tra i primi responsabili dei numerosi cambiamenti ambientali che negli ultimi decenni si stanno registrando sia a livello locale che globale. La domanda di prodotti d’allevamento è in aumento, a causa della crescita demografica e dei cambiamenti nelle preferenze alimentari: le previsioni, infatti, parlano di una produzione di carne e latte raddoppiata dal 2000 al 2050. Per la salute dell’ambiente questo rappresenta un pericolo, perché comporterà un ulteriore peggioramento delle condizioni ambientali. Per valutare in modo completo gli impatti che l’allevamento esercita sull’ambiente è necessario prendere in considerazione sia gli aspetti ambientali diretti, cioè strettamente correlati all’attività propria della produzione animale, sia quelli indiretti, legati ad esempio alle attività agricole necessarie per nutrire i capi d’allevamento. I processi di inquinamento legati alla produzione animale sono complessi e difficili da controllare, poiché, se da un lato l’allevamento industriale presenta forme di inquinamento “acute”, puntiformi e facilmente riconoscibili, le molteplici attività che ruotano intorno alla produzione animale (produzione agricola, industria chimica, produzione e gestione di rifiuti) sono in qualche modo fonti diffuse di inquinamento e generano impatti “cronici”, quindi individuabili solo sul lungo periodo.
Gli impatti ambientali significativi connessi alla produzione animale riguardano la degradazione del suolo, i cambiamenti climatici e l’inquinamento atmosferico, l’uso delle risorse idriche e il loro processo di contaminazione e, più in generale, la perdita di biodiversità. Vediamo nel dettaglio qual è la situazione attuale e quali sono gli impatti ambientali da ridurre Venendo meno i pascoli, cambiano anche le fonti di alimentazione destinate all’allevamento: circa l’80% della produzione di cereali mondiale, oggi, viene utilizzata come mangime negli allevamenti: i cereali, infatti, consentono agli animali di crescere più in fretta. L’agricoltura industrializzata, responsabile della produzione di questi cereali, ha trasformato i terreni alterando i fragili equilibri che regolano i diversi comparti ambientali. L'allevamento intensivo, ad esempio, distrugge il suolo perché la coltivazione di cereali per mangimi richiede moltissimo terreno coltivabile. L'agricoltura può contribuire alla desertificazione sia direttamente, tramite pratiche agricole dannose come la coltivazione intensiva e un uso smodato di acqua, sia indirettamente, quando la terra viene deforestata per creare nuove terre coltivabili per nutrire il bestiame. Il cambio di destinazione d’uso dei suoli è, infatti, un altro fattore determinante nell’alterazione degli ecosistemi: la deforestazione ha trasformato gran parte della foresta amazzonica dell’America Latina (un’estensione pari a due volte quella del Portogallo) in pascolo e in campi coltivati per nutrire i capi allevati. Tra il 1997 e il 2003 il volume dell'esportazione di bovini dal
Brasile è aumentato di oltre cinque volte; l'80% di questo incremento di produzione ha avuto luogo proprio nella foresta amazzonica. Dopo pochi anni di sfruttamento intensivo dei pascoli e dei campi creati, le aree deforestate vanno incontro a un processo irreversibile di desertificazione in cui la terra inaridita non produce più come prima. Quindi, diventa necessario abbattere una nuova porzione di foresta, in un ciclo continuo che degrada sempre di più l'ambiente…