Come dovrebbe essere un dialogo

Da Marcofre

Mica semplice scrivere dei dialoghi. Non ci sono ricette, solo qualche dritta. Ma immagino questo: soprattutto nel dialogo, occorrerebbe che ogni frase sia gravida di futuro. Che cosa può significare, si chiederà qualcuno. Perché di solito si pensa e si dice ben altro.

Per esempio: occorre che il dialogo sia verosimile; ne siamo certi? Diciamo di sì, ma forse se ci fermiamo solo a questo, non andiamo da nessuna parte. È come restare sulla soglia di una casa affermando di conoscere a menadito il suo interno.

Un dialogo verosimile rischia di essere piatto, privo di interesse. Magari “giusto”, e chi lo scrive lo difenderà dicendo: “Ma come! È così! È proprio così! Le persone parlano in questa maniera e io non ho fatto altro che riprodurre”. Non ne dubito.

La soluzione potrebbe essere questa: spalancare la porta su esiti imprevedibili.

La verosimiglianza può venire dopo, può attendere. Il dialogo non è il mezzo per allungare il brodo, far lievitare il numero delle pagine in maniera veloce. Eppure per molti è così.

Il dialogo non ama il luogo comune; quello che noi svolgiamo in uno studio medico, alle poste in attesa del nostro turno, sì. Ma quando si scrive entrano in gioco per forza altre regole e leggi. Un dialogo dovrebbe sorprendere. Detesta la lingua ovvia, ama la lingua semplice perché potente, e perciò difficile.

Quando per esempio due personaggi si incontrano e iniziano un dialogo, non lo fanno per fornire a chi legge le informazioni mancanti. Una storia non è un puzzle, ma… Una storia. Lo scopo di un dialogo, all’interno di un racconto oppure di un romanzo, è di preparare l’ordigno.

Secondo me, la narrativa o celebra il mistero dell’uomo, oppure pettina le bambole, come dicono a Roma.

Il dialogo rappresenta un buon sistema non per svelare il mistero (non ci sono risposte al termine di una buona storia), ma per fare in modo che si presenti nel modo migliore al lettore, persuaso che non ci sia niente di misterioso.

Tutto viene spiegato e svelato, e quello che è avvolto nelle tenebre, presto sarà spiegato. Più o meno è questo il pensiero in filigrana di tante persone. La buona narrativa è quella che al contrario, deve celebrare le erbacce, e mostrare che in ciascuna di esse c’è un tono di follia, di mistero o di grazia. Non è semplice, perché viviamo in una realtà che si sciacqua la bocca con la praticità, e si eccita per maghi, streghe e vampiri.

Non per l’uomo, quello brutto, scomodo. Sporco.

Per questa difficoltà nel rappresentare il mistero, molti ci rinunciano oppure nemmeno ci provano. Chi invece ci prova, sa che deve usare con estrema perizia la parola. E che saranno pochi quelli in grado di comprendere quello che si scrive. Come diceva zia Flannery, certa gente coglie l’orrore sbagliato.

Pazienza…

Il dialogo in questa opera di scoperta è una parte essenziale. Prepara il terreno, affinché i semi possano germogliare nel modo giusto. Scoprono, ma con lentezza e perizia.