Magazine Attualità

Come il vento che modella la roccia: sempre a proposito di don Vinante. E una “storia” breve di Villanova.

Creato il 14 aprile 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Come il vento che modella la roccia: sempre a proposito di don Vinante. E una “storia” breve di Villanova.di Rina Brundu. Mi sono ripromessa di scrivere di più. Su don Vinante certamente, ma anche con l’intento dichiaratamente didattico di allargare il discorso per renderlo comprensibile pure a chi non ha mai conosciuto questo straordinario personaggio e a chi non conosce le dinamiche che hanno sempre governato e che, purtroppo, ancora oggi governano date zone interne della Sardegna.

Mi è abbastanza difficile mettere ordine nel mare magnum di ricordi, emozioni, aneddoti, momenti, storie, storielle, impressioni, impronte, segni, tracce impresse nella mente nel corso di una vita (che per me è stata un’altra vita), e che adesso si affacciano tutte insieme alla memoria chiedendo a loro modo visibilità. Tenterò dunque di procedere con logica e soprattutto chiedendo aiuto a quell’onestà di metodo e di visione che sempre tento di mettere nelle cose, perché non si farebbe buon servizio a nessuno se si costruissero monumenti apologetici, celebrativi, elogiativi, encomiastici o esaltatori, anche perché la realtà delle cose non abbisogna di simili stratagemmi scritturali, meno che meno ne abbisogna lo spessore intellettuale e umano di uomini come don Pietro Vinante.

Come molti lettori di Rosebud ben sanno, io sono nata a Villanova Strisaili, in provincia di Ogliastra (già provincia di Nuoro), nel 1968. Un anno mitico il 1968, un anno che a suo modo andava cambiando il mondo e a suo modo andava smussando anche alcune “certezze” ataviche che regnavano ai piedi della mia Grande Montagna, il Gennargentu. O almeno, così tentava di fare dovunque in Ogliastra, un po’ meno proprio nel mio villaggio natale, un agglomerato di case e casette distese su una bellissima collina, a metà strada tra Nuoro e Lanusei, a metà strada tra le selvagge vallate di quel picco sublime e le meravigliose spiagge del Golfo di Arbatax, a metà strada tra il “paradiso in terra” idealizzato da Fabrizio de André e l’inferno-brigante e criminale di cui si leggeva un giorno sì e l’altro pure nelle pagine di cronaca di ogni quotidiano regionale e non.

Un luogo di “passaggio” dunque e un luogo che a questa fondamentale caratteristica deve anche la sua rinascita. Villanova Strisaili, adesso frazione del più popoloso comune di Villagrande Strisaili, vanta infatti una storia molto antica. Una storia a suo modo gloriosa, il cui fatale declino coincide con le nefaste vicende della “guerra” per Monte Novu (1652-1787 ca), ovvero della famosissima diatriba di tipo civile prima e che poi diventò un vero e proprio scontro armato, durato più di un secolo, tra pastori fonnesi e pastori villanovesi e villagrandesi. Una disfida che ebbe inizio quando i fonnesi, costretti da una grave pestilenza, spostarono le loro greggi dalle zone dal campidano di Cagliari e di Oristano nei territori limitrofi di Villanova e di Villagrande Strisaili dove già vantavano diritti di promiscua, ma dove non furono mai pienamente accettati dagli autoctoni (1).

Una brutta faccenda dunque, una brutta faccenda che tra le altre conseguenze portò all’unificazione dei due antichissimi comuni di Villanova e Villagrande Strisaili (nel 1813 se non ricordo male, ma è una data da verificarsi), e poi alla quasi “scomparsa” del “sito” villanovese che diventò una sorta di villaggio fantasma. Scriveva Alberto De La Marmora (2), nel suo “Itinerario dell’Isola di Sardegna” (1860): “Il suolo di Villagrande è quasi da per tutto granitico come quello sul quale si trova una vicina popolazione detta Villa nova Strisaili. La prima volta che sono stato in quest’ultimo villaggio, nel 1825, vi trovai una sessantina di abitanti :ma quando vi sono andato l’ultima volta che fu nel 1838, non vi trovai che una vecchia donna che vendeva dell’acquavite e del pane in una casa diroccata. Tutte le altre case ,in gran parte senza tetto, e cadute in rovina ,erano abbandonate. In questo medesimo luogo, che non è più in armonia col suo nome fu trovato da tempo una quantità di idoletti sardi in bronzo: essi furono disgraziatamente fusi per farne una campana e questa pure non esiste più, per quanto sappia. Io non ho visto questi idoli ,ma so positivamente d’esservi stati dissotterrati, per essermi stata data questa notizia dal fu intendente F.Gessa ..”.

Da ciò che mi ha sempre raccontato mio zio Angelo (103 anni quest’anno), già nel 1916, quando lui aveva 7 anni, le cose erano cambiate e Villanova, la quale vantava di nuovo una trentina di nuclei familiari originari delle diverse zone della Sardegna e del continente, probabilmente radunatisi colà causa i lavori in corso della strada Nuoro-Lanusei. Ma com’era la Villanova che tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 (quindi svariati anni prima di quel ’68 già citato in precedenza), accolse don Pietro Vinante, questo straordinario prete nato a Tesero in Val di Fiemme? A mio avviso quella Villanova era figlia della sua Storia. Della Storia grossolanamente descritta fino a questo punto senz’altro, ma soprattutto della sua e della nostra Storia-atavica, la quale è tutt’uno con quella della roccia granitica che sottoforma di montagna, ad un tempo benigna e matrigna, ne modellava e ne modella il destino. Nonché, l’essenza.

Già perché l’essenza di quella Villanova e dei suoi abitanti non poteva non essere quella più tipicamente sarda, della Sardegna più vera e incontaminata, di quella Sardegna che finanche i romani rinunciarono a sottomettere. E dunque non poteva che essere una essenza testarda come nessuna (un chiaro esempio è in colei che scrive), restia a dare fiducia agli sconosciuti, insofferente ad una modernità che non le apparteneva, riluttante, renitente, riottosa, avversa, refrattaria, a suo modo ostile verso chiunque tentasse di cambiarla o di addomesticarla. A suo modo chiusa. Immutabile come la roccia.

Ma se i villanovesi erano la “roccia”, è pure indubbio che don Pietro Vinante fosse il “vento”. Un vento nuovo e che di quel particolarissimo fenomeno atmosferico portava ogni tratto bello ed ogni tratto meno gradito. Don Vinante era quindi manifestazione di modernità mai diplomatica, raffica di notizie incredibili, folata goliardica e irriverente, spiffero salutare, refolo rinfrescante, ma era pure tempesta, bufera, tormenta, temporale, uragano, cliclone, turbine. Era marasma e sconvolgimento. Era scompiglio. A tratti disgrazia. Disgrazia quando, mi ripeto rispetto a quello che scrissi in altre circostanze, fece pacco e pacchetto di tutte le antichissime tradizioni che costituivano l’abito più prezioso dei miei, dei nostri padri, e le buttò dentro lo scarico del lavandino. Le fece sparire perché non in linea con i dettami di Santa Madre Chiesa. Perché non rilevanti nel “grande schema divino”, e questo lo esplicitò a me personalmente quando gli dissi del suo “dovere” di raccontare la sua Villanova (ovvero, la Villanova che aveva trovato al suo arrivo) prima che fosse troppo tardi. Parlo, per esempio, delle tante consuetudini scomparse relative al periodo pasquale, alle altre feste e ricorrenze marcate nei calendari agro-pastorali e “pagani”, e parlo, naturalmente, delle numerose usanze dei nostri nonni e bisnonni che con l’arrivo di don Vinante cessarono di esistere. Per sempre.

Questo bisogna, occorre, dirlo, perché, ribadisco, altrimenti non si farebbe un gran servizio alla verità. Così come occorre ricordare che don Vinante ha sempre “sacrificato” tutto alla sua immensa Fede, che pretendeva fosse sottoscritta dai suoi parrocchiani senza se e senza ma. Senza pensare. Senza raziocinare, perché Ragione e Fede sono in conflitto più spesso di quanto non ne scriva la teologia più lungimirante. Da qui gli infiniti scontri con ogni villanovese che facesse punto di decidere di suo (e non erano pochi!), da qui – complice pure il particolare periodo storico di cui scrivevo nell’incipit – la fuga dalla Chiesa di moltissimi giovani (me compresa sebbene appartenessi alle generazioni successive), da qui i malumori con la Curia che non vedeva bene quel sacerdote indomito, intelligente e colto quanto loro non avrebbero potuto essere mai, moderno, capace di un know-how tecnico mai visto prima in quelle zone interne da millenni abituate ai pretucoli di campagna, privo di qualsiasi complesso di inferiorità intellettuale e morale (tratto caratteriale che ci ha trasmesso intatto:)), dedito alla sua missione e disposto ad ogni sacrificio personale e umano pur di renderla più vera.

Ma allora l’arrivo di don Vinante è stato deleterio per quel modesto villaggio alle pendici della montagna? Au contraire, è stato quanto di più igienico e benefico avrebbe potuto capitargli e non capire questo significa continuare a vivere come talpe orbe rintanate nei cunicoli della montagna. E a don Vinante infatti che dobbiamo la maggiore apertura al mondo che il villaggio, durante quegli anni mitici, respirava e che comparata a quella degli altri borghi vicini (ma pure a quelli “lontani” in quel della Sardegna dimenticata da Dio e dagli uomini), ci faceva apparire alla stregua di piccoli-giganti. Da nessuna altra parte si era mai vista una attività imprenditoriale organizzata dentro la parrocchia, quale era, per esempio, la maglieria villanovese che dava impiego a diverse donne e ragazze paesane, e il cui fine era quello di inviare l’intera “produzione” nelle missioni africane. Da nessuna altra parte si era mai visto un sacerdote che inviava lettere e articoli ai giornali di tutta Italia, che costruiva una biblioteca gigantesca (poi purtroppo andata inspiegabilmente perduta), che predicava a braccio, che scriveva canzoni, che riadattava opere famose, che organizzava manifestazioni, che attirava l’attenzione della Stampa e degli industriali di tutta l’isola, che organizzava lotterie benefiche e che non ha mai smesso, un solo momento, di fare tutte queste cose. Basti pensare anche a Radio Carmine, con la sua infinita collezione di registrazioni di inni e pezzi sacri, che don Vinante ha creato e ancora dirige da Elini.

Soprattutto, da nessuna altra parte si era mai visto un sacerdote che è arrivato in una parrocchia con indosso la sua tonaca-soltanto e che con la sua tonaca-soltanto l’ha lasciata. Che non ha mai trattenuto un singolo centesimo per se. Che ripudiava anche l’idea di possedere qualcosa perché la faccenda non sarebbe stata degna di ogni vero apostolo del suo amatissimo Cristo. E che pure nel suo dissentire da tutte le pratiche-mondane che sono sempre state tra gli interessi principali di Nostra-Madre-Chiesa in terra, non abbia mai sgarrato dal voto più importante che aveva fatto in quanto servo della stessa: quelllo dell’obbedienza!

Scrivere di più non servirebbe in questo particolare contesto. Dico soltanto, soprattutto ai giovani villanovesi che purtroppo non conosco, che qualora dovessero decidere di far “rinascere” quel bellissimo paese, oggidì noto, mercé le sue stupende villette, come “la Svizzera ogliastrina”, dovrebbero cominciare a farlo proprio guardando all’esempio del-fare proposto da don Vinante. E quindi decidendo di dare un taglio netto alle dinamiche clientelari, di tipo politico ed economico, che lo ingolfano e lo soffocano, e soprattutto alle dinamiche anche di tipo criminale che ancora ne impediscono una effettiva crescita. Perché la vita dovrebbe sempre essere realtà-nella-sua-difficoltà e non illusione-nella-sua-lusinga, e perché se è vero che la vera “roccia” resiste da par suo – e con una testardaggine unica – a qualsiasi “vento” che tenti di modellarla e anche vero che è nel suo destino trovarsi nell’impossibilità di fuggirne l’effetto. E quindi quell’effetto c’è e ci sarà, soprattutto si manifesterà in forma di memoria futura impossibile da cancellare. Per tutto questo, grazie don Vinante!

Note:

(1)   Tra il 1652 e il 1656 quando la Sardegna era sotto la dominazione spagnola, i pastori fonnesi che abitualmente svernavano nel campidano di Cagliari e Oristano, a causa di una grave pestilenza, furono costretti a rientrare a Fonni con le loro greggi, per evitare il contagio. I territori fonnesi adibiti a pascolo furono insufficienti per quell’enorme carico di bestiame perciò i pastori si spostarono nei territori limitrofi di Villanova Strisaili e Villagrande dove già vantavano diritti di promiscua. Questo fatto non fu accettato dalle popolazioni ogliastrine, fu così che ebbe inizio la diatriba che fu dapprima di tipo civile e successivamente sfociò in un vero scontro armato che durò più di un secolo. (fonte http://www.fonni.it/home/ambiente/monte_novu.htm) …… “A proposito della questione, anch’essa accennata nella relazione del viceré Des Hayes (1770, NDC), relativa alla secolare controversia tra i pastori fonnesi e quelli dei Comuni limitrofi di Villanova Strisaili e Villagrande per i terreni di Monte Novu, ricordiamo che in origine quei terreni, essendo di confine, erano goduti in regime di promiscua fra i tre Comuni, secondo un’antica consuetudine sarda, per evitare liti tra i pastori soprattutto nei casi ricorrenti di sconfinamento del bestiame”  (in ZIROTTU, GIACOMINO, Fonni, Associazione culturale Proposta – Fonni, 2002, pag. 80)….. “Il 29 novembre del 1811, però, c’è il definitivo capovolgimento di fronte, con la Carta Reale del re Vittorio Emanuele I, che concede in enfiteusi perpetua ai fonnesi la superficie di 3621 ettari ricadenti in circoscrizione di Villagrande, dello stesso Monte Novu. Il canone annuo di 200 lire sarde restò a carico di Fonni fino al 1919, quando dopo vari tentativi e molte difficoltà finanziarie e giuridiche, il Comune riuscì ad affrancarsene con l’acquisto dei titoli di cui alla legge 14 Gennaio 1864, cioè titoli che rendessero il tanto del canone dovuto”. (IBIDEM, pag. 88).

(2)   Generale, studioso, naturalista. Nacque a Torino il 27 aprile 1789. Quando il Piemonte fu incorporato nella Francia napoleonica, entrò nella scuola militare di Fontainebleau, dalla quale uscì nel 1807 col grado di sottotenente di fanteria. Partecipò a diverse campagne con l’esercito francese, in particolare prese parte alle battaglie di Wagram, Lützen, Torgau e Bautzen, ottenendo per i suoi meriti in quest’ultima battaglia la croce della legion d’onore da Napoleone. Nel febbraio del 1819 si recò per la prima volta in Sardegna, e dopo una traversata di 12 giorni giunse a Cagliari. Voleva dedicarsi agli studi di ornitologia e praticare la caccia, che appassionava non poco i militari di professione come lui…. Nel 1821, sospettato di partecipare ai moti liberali, fu esiliato e invitato e a raggiungere al più presto la Sardegna. Giunse a Cagliari nel 1822 e, nonostante il forzato esilio, si sentì a casa propria, tanto era innamorato dell’isola…. Difensore della causa veneta, luogotenente generale nel 1848, nel 1849 fu inviato quale comandante generale in Sardegna. A quest’isola dedicò i suoi studi in lingua francese su questioni economiche e fisiche: Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825 ou description statistique, physique et politique de cette île, pubblicata a Parigi nel 1826, contiene le sue osservazioni, le statistiche, le ricerche sulla natura e sul patrimonio archeologico della regione. La seconda edizione dell’opera risultò più organica in quanto suddivisa in tre tronconi con trattazioni ampliate e corredate dalle pagine del noto Atlante. L’opera è così suddivisa: Geografica fisica e umana della Sardegna, pubblicata nel 1839; Antichità, del 1840; Geologia, del 1857. Come quarta parte di questo grande lavoro fu aggiunto nel 1860 L’Itineraire de l’ile de Sardaigne, che incontrò il favore del pubblico e del quale il canonico Giovanni Spano, suo amico personale, curò la traduzione nel 1868 col titolo di Itinerario dell’isola di Sardegna del Conte Alberto Ferrero Della Marmora.

Tornò ripetutamente in Sardegna fino al 1857; fin dal 1826 lavorò sulla carta geografica dell’isola che gli diede grande notorietà. Con la sua attrezzatura girovagò per le contrade prendendo appunti ed effettuando misurazioni topografiche. A lui si deve la misurazione del punto più alto del Gennargentu, che porta il suo nome (Punta La Marmora – 1.834 metri).

Il 17 agosto 1851 andò in pensione e si dedicò solo all’attività parlamentare come senatore del regno, continuando gli studi con la Sardegna sempre al centro delle sue attenzioni. Il suo modo di vivere, gli stenti nei lunghi viaggi nell’isola, i pernottamenti disagiati e spesso all’aperto, gli causarono dolori e acciacchi che minarono il suo fisico portandolo alla morte il 18 maggio del 1863.

Alberto Ferrero della Marmora è sepolto nella chiesa di San Sebastiano, a Biella (a cura di Stefania Nardi, fonte http://www.biellaclub.it/_cultura/personaggi/A_Lamarmora/index.htm).

Featured image, lavori per collocare la croce del Cristo sopra Punta La Marmora (Gennargentu, 1834 m. ca.), 1970 ca, fotografia don Pietro Vinante.


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog