Alla fine, dopo trentasei ore di veglia e dormiveglia ma anche un po’ di dormi-e-basta, io e mia mamma ci siamo concessi una tregua. Assistere il papà in questa – a detta dei medici – fase terminale è un’attività che per la sua temporanea stazionarietà genera assuefazione. Il respiro in un ritmico su e giù della cassa toracica a protezione di un cuore forte, la bocca spalancata nella maschera dell’ossigeno a rubare tutta la vita che c’è lì dentro, il tutto nella cornice di uno stato di totale assenza, un sonno profondo, un qualcosa che anche se non l’ho mai visto – per fortuna – non stenterei a definire coma. Dopo un giorno intero, quindi, speso nell’intento di captare anche un minimo segnale di cambiamento che non si sa mai se sia meglio auspicarlo o meno, in questo loop straziante del respiro che, paradossalmente, ha un ritmo con gli altri rumori dell’ospedale e dei suoi macchinari che arrivano dal corridoio, un respiro almeno due volte e mezza più veloce del mio, ci siamo arresi all’auto-conservazione. Una persona fidata ci sostituisce per la seconda notte e io mi avvio a consumare il primo pasto completo da quando siamo lì. Davanti a un paio di porzioni di un ghiotto piatto locale, che non mangiavo da anni, mia mamma ed io siamo persino riusciti ad avere un po’ di ristoro emotivo. Abbiamo persino riso quando lei mi ha fatto notare che mio papà morirà senza aver capito che lavoro faccio. Addirittura mi sono steso sul divano a casa loro, dopo cena, approfittando dell’abbonamento a Sky per seguire la partita che poi non era nemmeno su Sky. Mi sono però addormentato in quel lungo spettacolo dell’attesa televisiva, quella in cui si spremono tutti i contenuti per tenere il più a lungo gli spettatori sullo stesso canale e aumentare così il valore pubblicitario. Mi sono svegliato che i giochi erano fatti e la nazionale italiana dava il meglio per difendere il risultato. Ed è stata una fortuna, perché i miei tempi di sopportazione di un incontro di calcio non superano i venti minuti. Questa mattina presto, poi, siamo tornati da lui ed era ancora così, con la stessa espressione che sembra più esausta che rassegnata. All’inizio ci trovavo dello spavento, magari la paura dell’ignoto. Poi però mi sono convinto che sia un severo monito a non perdere mai un’occasione per dirsi le cose.
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