Come la crisi è diventata il mio stile di vita (Reprise)

Creato il 15 febbraio 2012 da Einzige
parte tutto dalla constatazione che la cronaca nera e quella politica sono state sostituite, metabolizzate, scalzate e declassate dall’urgenza delle notizie sulla finanza, alta o bassa che sia. una finanza divenuta da prima pagina da quando, all’incirca tre anni fa (ma, a voler essere precisi, da molto prima), ci ha portati tutti sull’orlo del baratro- un burrone scivoloso costellato dalle manate disperate delle crisi precedenti- e ci ha lasciato lì, senza sapere cosa succederà: cadremo o ci salveremo? (che poi, anche nel caso ci "salvassimo", non sarebbe più nulla come prima).
nel frattempo, ci s’appassiona (si fa per dire, of course) ai saliscendi da giostra degli indici azionari o all’allargarsi e restringersi tipo fisarmonica degli spread tra i vari titoli di stato. ci si appassiona, inverosimilmente, perché non si può far altro: pagine e pagine di giornali, riviste e periodici dedicate a questa grossa mano invisibile- che ben pochi conoscono e sanno maneggiare con cognizione- fluida e senza limitazioni di sorta che, più nel male che nel bene, governa le nostre vite, come fossimo soltanto un numero su un tabellone. i governi- quelli veri, quelli che si dicono eletti dalla maggioranza- ovviamente non fanno un tubo. o meglio, aspettano di sapere cosa succede in borsa, ché tanto è da quella (loro al pari di noi, comuni mortali) che tutti dipendiamo: loro (i politici) per fare l’ennesima riforma solo di nome, inutile e cosmetica come al solito; noi (gli elettori, i consumatori) per vedere se, alla fine, a ‘sta benedetta fine del mese ci possiamo arrivare.
l’altra cosa divertente da notare è l’enfasi semplicistica e paradossale con cui l’informazione togata (quella delle televisioni e dei grandi e medi giornali) strombazza la crisi e le sue riforme come ineluttabili, necessarie e salvifiche, come se porsi un dubbio (ma mica uno grosso, anche un dubbio minuscolo) sia eretico. crisi creata dagli stessi che adesso cercano di metterci una pezza. come dire: prima ci scaraventano a terra sanguinolenti e poi ci allungano un cerottino. la sostanza è che, elegantemente, si rimane nella merda. perché la crisi è invisibile, non è il prodotto dell’economia reale- quella degli oggetti- ma di un altro tipo, fantasmatico, frutto di speculazioni e accumulo di capitali immaginari. noi non possiamo vederla e, quindi, non possiamo nemmeno metterci una pezza.
le conseguenze naturali sono le rinnovate (finalmente!) necessità delle persone di ritornare, se non al centro, almeno davanti alla porta d’ingresso del loro destino: cercare di avere una voce in capitolo, senza deleghe e altre stronzate. e, per un 15-M che fiorisce colmo di propositi (e aspettative), per poi- forse- appassire in un amen ma pur sempre con l’encomiabile scopo di aguzzare il piccone che farà crollare a picco la nave, c’è un’insurrezione anonima e, altrettanto senza capi né portavoce, che si scaglia sempre contro la stessa società, ma con il fine unico di saccheggiare talis qualis la stessa fa con loro e con il loro futuro: parte quindi l’assalto ai beni di consumi, agli status symbol del capitalismo, facendo affievolire la fiamma del furore anti-sistema in un gioco (al massacro) avvilente e nichilistico- di un nichilismo che avrebbe fatto impallidire i Padri e Figli di Turgenev.

le rivolte perdono di qualità, e di sostanza, dimostrando- praticamente- di essere esse stesse uno strascico delle crisi, e niente più. perché poi, a parlare francamente, non le si può nemmeno chiamare rivolte. le rivolte vere si fanno altrove, nelle piazze Tahrir del bacino islamizzato e colonizzato, dove vecchi, giovani e giovanissimi ci mettono la faccia, le gambe, il cuore e, spesso, ci perdono pure la vita. le nostre, al confronto, sono gitarelle fuori porta.
probabilmente ci si sbaglia a volersi scagliare con tanta foga contro i poveri governi- pedine più ricche e potenti, ma sempre pedine- con limitata voce in capitolo ormai sui modus di gestioni e sui medium per farlo. ad essere contestato, dovrebbe essere il sistema economico intero, che ha perso il suo significato originario di ‘governo dei beni’ (οκος e νόμος) divenendo un mostro teratogenico: il Leviatano di Hobbes si è liberato delle forme troppo visibili e deboli dello Stato come istituzione per assumere quelle meno appariscenti e tangibili dell’economia “irreale”.    
tuonerà come un'esternazione reazionaria, ma questo è probabilmente il momento migliore per comprendere quanta parte della nostra vita è completamente fuori dal nostro controllo. quanto poco ci possiamo dire indipendenti. quanto poco siamo consapevoli di una situazione che ci vede schiavi in un gioco di cui ci illudiamo di essere i registi. perché scambiamo alienazione, isolamento sociale e intolleranza generalizzata per individualismo e libertà di pensiero. liberi di pensare solo quello che passa sullo schermo del televisore, al massimo sugli scaffali del supermercato. la prima vera ribellione parte da una presa di coscienza: ingabbiati dal populismo dell'anti-politica da un lato, e da un civilismo ipocrita e profittatore dall'altro, forse è ora di darci una svegliata.

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