“È il toro di E.T. e di O.T.,” annunciò Scofield. “Ieri ho incassato la rata dal loro negro e mi ha detto che non lo trovavano più.” Mostrò una distesa esagerata di denti e sparì, senza rumore. Wesley alzò gli occhi e scoppiò a ridere.
Per chi non lo ricordasse: E.T. e O.T. sono i figli del signor Greenleaf. Stiamo parlando del toro randagio che gira nella proprietà della signora May, e di cui nessuno sa chi sia il proprietario; almeno sino a ora.
Siamo quasi a metà di questo racconto di Flannery O’Connor: e tutto parte da… un toro. La scintilla non è una rivoluzione, un evento straordinario che travolge la vita dei protagonisti. A guardarlo da lontano (o da vicino, come preferite), è una banale storia di vicini in una contrada di campagna nel sud degli Stati Uniti. Ma come si sa (orsù, non fatemi ripetere sempre le stesse cose!) non è necessario parlare dell’eccezionale: il quotidiano offre già sufficienti sorprese, e spunti, a chi sa osservare.
Osservare, non vedere. C’è una bella differenza: l’occhio “vede”, ma si ferma solo su ciò che merita di essere serbato cioè conservato, cioè osservato.
Scofield (uno dei figli della signora May), mostra una distesa esagerata di denti, e sparisce. Parla, e sparisce. L’autrice aggiunge anche quel “senza rumore”: è necessario? Oppure è solo un dettaglio insignificante, qualcosa che a chi scrive sfugge? A me pare in realtà che quel “senza rumore” riesca a dare a Scofield una corporeità insieme solida e tuttavia impalpabile. È l’uomo di successo, vende polizze ai negri, e questo come abbiamo visto crea disappunto alla madre.
Ma alla fine la sua presenza in quella casa, in quella stanza è lieve come può esserlo un’ombra. Ecco allora l’abilità dell’autrice che con due paroline messe lì quasi senza che ce ne rendiamo conto, ci offre del personaggio altri preziosi elementi. Sembra un tipo solido, forse lo è o meglio ritiene di esserlo, e molte persone concordano con il suo giudizio. Ma è come un’ombra, e esce senza rumore.
“Io sono l’unica adulta in questa casa,” disse, (…) Vedi cosa devo sopportare? Vedi che se non gli avessi tenuto il piede sul collo (…) sareste a mungere le mucche tute le mattine alle quattro?”
C’è anche Wesley certo, l’intellettuale che odia tutto e tutti, e a lui si rivolge: ma lui ride. È una presenza ben diversa dal fratello, quasi opposta: Scofield sorride, anzi no:
Mostrò una distesa esagerata di denti
mentre lui scoppia a ridere. È più “concreto” ma solo in apparenza: forse è persino più inconsistente del fratello. Infatti poco dopo alla madre dichiara:
“Io non mungerei una mucca per salvarti dall’inferno”.
Attenzione, qui si consuma un piccolo dramma. Niente di raccapricciante, diciamo che il tono tra madre e figlio sale. Cosa c’è di più ordinario? La discussione su un toro randagio, ma potrebbe essere su qualunque altro tema. C’è da illustrare qualcosa, da comunicare al lettore la natura di questi personaggi attraverso gesti e parole. La temperatura (un concetto che Raymond Carver amava ricordare) aumenta. Non è però necessario arrivare allo scontro, all’insulto. E nemmeno c’è da ricorrere a punti esclamativi a profusione. Prendiamo questa frase e rileggiamola, per piacere:
“Io non mungerei una mucca per salvarti dall’inferno”.
Dura, spietata, dice più questa che intere pagine dove l’esordiente si affanna a scrivere parole su parole per spiegare che tra caio e sempronio non scorre affatto buon sangue. Basta una frase. Sembra un pugno in faccia.
Pronunciatela ad alta voce adesso, e se avete qualcuno accanto probabilmente se ne avrà a male. A ragione.
“Lo so,” mormorò lei, con la voce che si spezzava. (…) “E.T. e O.T. sono bravi ragazzi,” affermò. “Avrebbero dovuto essere miei figli”. (…) Tutto quello che la signora May vedeva era una sagoma scura che si alzava in fretta da tavola. “E voi due,” gridò, “voi due dovreste essere figli di quella donna!
Wesley si stava dirigendo alla porta.
Un punto esclamativo, e il verbo “gridare”. Non c’è bisogno di molto, vero? Raggiungere l’efficacia, è una faccenda che riesce solo se si toglie, invece di aggiungere senza criterio. C’è in questo brano la signora May che tocca con mano l’inutilità del suo alzarsi ogni mattina e mandare avanti la fattoria. È sola. Ha due figli che se ne infischiano. Forse il mondo intero se ne infischia di lei, dei suoi sforzi. Ha sbagliato tutto, tutto va a rovescio, e le persone perbene (lei) come vengono retribuite? Con due figli come quelli.
Viceversa il signor Greenleaf, un bifolco scansafatiche e ignorante, progredisce. Sotto sotto, lei lo ammira, o meglio ammira i suoi figli che non sono niente di eccezionale. Però probabilmente hanno una qualche considerazione per chi lavora.
“Quando sarò morta non so che ne sarà di voi”, insisté la donna, con voce esile.
“Non fai che blaterare dia usando sarai morta, ma a me sembri in ottima salute,” ringhiò lui, uscendo a precipizio.
Alcuni punti da tenere in considerazione. La signora May parla adesso “con voce esile”. Lo sfogo si è esaurito, ed esausta forse, torna alla condizione di prima. Però ci tiene a ribadire il concetto. Infatti insiste:
“Quando sarò morta non so che ne sarà di voi”
Questa donna accetterebbe anche che i suoi figli non mungessero, e vivessero lontano dalla fattoria; ma che avessero almeno rispetto per la loro madre. È una frase che non si riferisce solo al destino dei figli nella fattoria dopo la sua morte: ma al loro destino nella vita. La signora May dice in realtà: siete così, ma che ne sarà di voi? Al diavolo la fattoria, le sue mucche, i tori e tutto il resto, compresi i fittavoli. Voi, che ne sarà di voi se siete “così”?
Wesley non risponde: ringhia. Ed esce a precipizio, mentre il fratello lo aveva fatto “senza rumore”.
La signora May resta sola.
Come leggere un racconto /13 – Greenleaf di Flannery O’Connor