A metà mattina, la signora May imboccò il viale d’ingresso di E.T. e O.T.
Si tratta dei due figli del signor Greenleaf. La signora May si reca alla loro casa, ma si può intuire che non ci troviamo affatto davanti a una pura visita di cortesia. In mezzo c’è ancora la faccenda del toro randagio che è rinchiuso in un recinto del terreno della signora May.
(…) tre cani, mezzo segugi e mezzo volpini, che arrivarono di corsa dal retro, non appena lei fermò la macchina. La signora May (…) suonò il clacson.
Non è il tipo di persona che scende e si reca a suonare il campanello o a bussare. Forse ha paura dei cani?
Probabilmente ha orrore di quella gente e della loro casa, però anche in questo caso l’autrice evita con cura di dire, di spiegare. Si limita a mostrare, invece di scrivere: “Aveva orrore di quella gente, della loro casa, per questo non scese dall’automobile”. Il lettore capace comprende al volo questo genere di cose, in un certo senso le assimila senza sforzo. Flannery O’Connor illustra i fatti, e basta. L’occhio scivola sulla pagina, la mente comprende, la magia si concretizza.
Non arrivava nessuno, e lei suonò di nuovo.
Benché sulla porta di quella casa non compaia anima viva, lei imperterrita torna a suonare. Forse dentro hanno sentito il rumore del motore dell’automobile, e si attendevano che qualcuno dopo un po’ bussasse. Per questo nessuno esce, è del tutto comprensibile. Non per la signora May. E allora che succede?
Finalmente, la porta si aprì e alcuni bambini si affacciarono sulla soglia e rimasero a fissarla, senza accennare a farsi avanti. (…)
“Bambini, non può venir qui, uno di voi?” domandò.
La situazione si sblocca, magari con lentezza, ma insomma; è già qualcosa. Scena interessante: la signora May in macchina, chiusa nella sua condizione di proprietaria. Di fronte a lei, un gruppo di marmocchi:
Due o tre erano visibilmente di razza Greenleaf, gli altri molto meno.
Sono due mondi che si guardano, senza mescolarsi. Benché una parte sia composta da bambini, l’adulto resta sulle sue posizioni, distante. Lei in automobile, loro a piedi nudi, a fissarla. Piccoli dettagli che l’autore (in questo caso l’autrice) allestisce in maniera sobria. Come mi piace ripetere spesso, non importa poi che siano pochi i lettori in grado di cogliere queste cose. Se si scrive in un certo modo si agisce così, e basta.
“Dov’è la vostra mamma?”
(…) Poi uno del gruppo disse qualcosa in francese. La signora May non sapeva il francese.
“Dov’è il vostro papà?”
Dopo una pausa, uno dei maschietti rispose: “Non c’è nemmeno lui.”
“Aaaaah!” fece la signora May, come se questo dimostrasse qualcosa. “E dov’è il vostro negro?”
Sembra quasi che questi piccoli eventi concorrano a rafforzare le precise idee della signora May a proposito di tutti i Greenleaf, non importa se grandi o piccoli. I genitori non ci sono, e lasciano soli i bambini. Superfluo aggiungere che per la signora May questo vuol dire molto. Però tutto è affidato a un “Aaaaah!” che vale più di qualsiasi discorso o replica. Non è necessario aggiungere altro.
I ragazzi non rispondono. La signora May prova allora con una battuta:
“Il gatto ha rubato sei linguette…”
Non succede niente. Da notare che la signora May evita con cura di presentarsi (è pur sempre in casa d’altri), e con cura non chiede a nessuno dei bambini il nome. Perché presentarsi? Non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello che sia necessario, neppure se ha davanti un gruppo di bambini. Per lei sono solo dei Greenleaf in serie, non vale certo la pena spendere tempo ed energie in sciocchezze. Si tratta di gente così, che mette al mondo figli così.
Un’altra battuta, poi scoppia a ridere e:
(…) la sua risata morì nell’aria silenziosa. Aveva l’impressione di subire un processo, in cui era in gioco la sua vita, davanti a una giuria di Greenleaf.
Ricordiamo che questa donna a metà mattina è salita sulla sua automobile per cantargliele, a quegli sfaticati dei Greenleaf. Non sanno nemmeno tenere un toro (il loro toro) nel loro terreno. Lo perdono, e invece di muoversi, cercarlo, andare nelle fattorie vicine a chiederne notizie, che fanno? Niente. È la signora May che deve andare da costoro per domandare che vengano a prendere un pezzo ambulante della loro proprietà. E naturalmente trova solo dei bambini che o parlano francese, o non parlano.
In più, ha l’impressione di subire un processo, e in gioco c’è la sua vita. Un’impressione ridicola, perché lei è una donna perbene. Lavora, gestisce una fattoria nonostante l’ottusità del fattore e l’indifferenza dei suoi figli. Eppure su quell’aia è come se la sua vita fosse arrivata a una svolta, e questa è appunto una specie di processo da parte di un gruppo di bambini.
“Vado a vedere se trovo il negro,” annunciò.
“Vada pure se vuole,” disse uno dei ragazzi.
“Be’, grazie,” fece lei, e ripartì.
La risposta di uno dei ragazzi è meravigliosa. Forse il maggiore del gruppo? Non importa a Flannery O’Connor; ci sono a volte degli aspetti nel racconto che possono essere tralasciati perché potrebbero indebolire l’effetto della frase seguente. La risposta della signora May, così “nuda” svela però un’irritazione composta ma reale. È qui che si deve concentrare l’attenzione del lettore.
“Be’, grazie,” fece lei, e ripartì.
Questi Greenleaf che concedono. Che parlano tutti in quel certo modo che sembra fatto apposta per irritare. Una maniera di parlare che lascia intendere che si permette, ma si potrebbe negare con tutta tranquillità, perché anche se il nome è Greenleaf, che differenza c’è con gli altri? Con la signora May? Nessuna!
È questo ciò che disgusta la donna. Bifolchi e gente per bene sullo stesso piano.
Come leggere un racconto /16 – Greenleaf di Flannery O’Connor