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Come leggere un racconto /24 – Greenleaf di Flannery O’Connor

Da Marcofre

Scese dalla macchina e fece un giretto, poi si sedette sul paraurti a riposare, mentre aspettava. Era molto stanca: (…). Non capiva perché fosse già così stanca, a metà mattina.

Come si sa, un racconto è composto da diverse parti, e alterna “tratti” dove la narrazione pare più spedita, quasi a passo di corsa, ad altri nei quali viceversa sembra rallentare. Ci troviamo in uno di quei momenti dove personaggi e narrazione si “siedono”. Anche l’alternanza di “stile di corsa” in un racconto lungo o romanzo (se vogliamo spingerci fino in fondo con il parallelismo della competizione sportiva) è una faccenda che deve essere curata come si deve. Ma come ci si riesce?

È forse la storia che già contiene “in nuce” le diverse velocità, e l’autore deve limitarsi a renderle evidenti? Oppure il mestiere, la tecnica aggiusta questa specie di corsa, come l’allenatore via radio comunica col ciclista che deve centellinare le risorse adesso, per lo sprint finale dopo?
Bella domanda: direi che buona parte della verità si annida nella seconda, ma solo perché la storia racchiude in sé molto “materiale” grezzo che attende solo una mano abile.

 

Venne alla conclusione che si sentiva stanca perché lavorava da quindici anni, senza sosta. (…) Davanti a qualsiasi tribunale avrebbe potuto dire: “Ho sgobbato, non mi sono data alla bella vita”.

 

Si può quasi udire un respiro lento in queste frasi, come di un riposo che nasce da un organismo stanco. Si dice spesso che occorre colpire i sensi del lettore, e secondo me queste frasi, come un po’ tutto il racconto, rendono questo ambiente, le persone che lo abitano, concrete. Polverose.
Vivissime.

Intanto la mente della signora May continua a lavorare, a pensare al signor Greenleaf nel bosco a perdere tempo, probabilmente. A sua moglie accucciata per terra. Questa donna pare non fermarsi mai, pare così forte la sua energia da proseguire sempre, in sottofondo; benché stanca riesce ancora a pensare a coloro che come parassiti vivono sulle sue spalle. Mentre lei lavora.

Ha tempo di ricordare un episodio a proposito della religiosità, quando lei aveva detto al signor Greenleaf, con tatto, che:

 

“Ci vuole misura in tutto, capisce?”.
“Una volta ha guarito un uomo che aveva lo stomaco mezzo mangiato dai vermi”, aveva risposto lui, e la signora May si era voltata dall’altra parte, con una gran voglia di vomitare.

 

Questa incapacità di “staccare”, e smettere ogni tanto di pensare al lavoro, è solo conseguenza di una vita condotta da sola, in mezzo a figli inetti e un fattore che se ne infischia? Oppure è una sorta di fondamentalismo, non distante da quello della moglie del signor Greenleaf, che si rotola a terra nel bosco e grida: “Gesù! Gesù!”?
Quel “ci vuole misura in tutto”, che lei offre al fattore, non dovrebbe rivolgerlo anche a se stessa?

L’orizzonte della signora May è piano, anzi piatto. Non c’è che la fattoria, le scaramucce con il signor Greenleaf, i continui piccoli duelli con i quali entrambi cercano di dimostrare la superiorità dei propri figli, su quelli dell’altro, o altra. Dove si trova la misura, in tutto questo? C’è vita?

Si potrebbe affermare che Flannery O’Connor mette sullo stesso piano due fondamentalismi: quello della religione, che nel sud degli Stati Uniti allora come oggi raggiunge vette di parossismo.

E l’altro, tanto celebrato da venire considerato “normale” e perciò non fondamentalista: il lavoro. La nuova religione assoluta, imposta dopo la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale da un sistema che vuole solo crescere, e non pensare ad altro. Non vedere nulla oltre perché non c’è proprio nulla da vedere.

Decise di suonare il clacson. (…) per far capire al signor Greenleaf che cominciava a spazientirsi. Poi si sedette di nuovo sul paraurti.

In attesa.

Come leggere un racconto /23 – Greenleaf di Flannery O’Connor


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