La finestra della camera da letto della signora May era bassa e dava a oriente, e il toro, argentato dalla luna, vi stava sotto a testa alta, quasi aspettando, come un dio paziente sceso a corteggiarla, di udire la donna muoversi nella stanza.
Questo è l’incipit di Greenleaf il racconto di Flannery O’Connor racchiuso nel volume “Tutti i racconti” (Tascabili Bompiani).
Prima considerazione: è una frase lunga.
Seconda considerazione (più importante della prima): non ci si bada molto.
Meglio ricordarsi sempre che la regola di ogni scrittura è il valore e l’efficacia. C’è chi scrive frasi brevi e colpisce al cuore. C’è chi ne scrive di lunghe e colpisce. Infine, la maggior parte delle persone che scrivono sceglie o il primo sistema, oppure il secondo, e sbaglia comunque perché non sa scrivere.
L’efficacia di una frase non può certo essere ridotta a una formula matematica da mandare a memoria e applicare ogni volta che è necessario. Di questo incipit colpisce la banalità. Non succede niente di particolare. Abbiamo un toro, una signora May, la notte e la finestra di una camera da letto.
La notte non viene nominata: se ne parla riferendosi all’animale, argentato dal nostro satellite.
Nel racconto spesso le prime frasi fissano la cornice entro la quale si svolgerà la storia. Si nomina il protagonista e si spiega già dove si svolgeranno gli eventi. Qui non siamo certo in città, siamo da qualche parte nel sud degli Stati Uniti. E la fuga di un animale in una fattoria vicina era (è?) faccenda abbastanza comune.
L’unico aspetto che merita attenzione è:
come un dio paziente sceso a corteggiarla,
che strano: un toro visto come un corteggiatore.
Si è portati a sorridere, però siccome questa è Flannery O’Connor, e come qualunque autore/autrice niente è messo sulla pagina a caso, forse conviene ricordarsi di questo dettaglio.
Per quale ragione?
La lezione che un racconto insegna a chi ha voglia e tempo per imparare, è che si comincia da qualcosa che è alla nostra portata. Che si verifica fuori dalla soglia di casa nostra.
Flannery O’Connor viveva in una fattoria, era circondata da altre fattorie, e incidenti come questo (un toro che scappa e finisce dal vicino), è una faccenda abbastanza comune.
Adesso qualcuno giubilando potrebbe osservare che non è affatto sbagliato scrivere di ciò che si conosce. Che ci capita.
E che io più di una volta su questo blog ho affermato che scrivere solo di ciò che si conosce è una fesseria.
Se la pensate in questo modo, siete già caduti nel trappolone cosmico che cattura milioni di scrittori senza talento. Non che la mancanza di talento sia poi così grave: molti riescono a fare un mucchio di soldi anche così.
La narrativa che dura non parla di esperienze: ma di rivelazioni. Non (soltanto) di fatti, ma di quello che nascondono.
Magari Dostoevskij un giorno ha letto che un giovane studente squattrinato aveva ammazzato una vecchia usuraia. Inizia a scribacchiare qualcosa, però quello che desidera raccontare non è un omicidio. Di quello hanno già parlato i giornali, la gente si è indignata a sufficienza, “Dove finiremo signora mia!”, “Siberia!” (ehi, c’era già, anzi i russi sono i produttori originali del marchio).
Tutta roba che di certo era stata cavalcata ad arte da scrittorucoli dell’epoca, che forse hanno avuto successo. Ma di cui nessuno ricorda più nemmeno il nome.
Dostoevskij ha ben altre ambizioni, e infatti confeziona “Delitto e Castigo”.
Mica cotica.
Raymond Carver beveva e nei suoi racconti troviamo spesso dei personaggi alle prese con la bottiglia. Non è però questo che lo rende “Carver”. Quello che di solito si cerca in una determinata narrativa (quella che dura), non sono i fatti. Per quelli ci sono i quotidiani. E allora che cosa si cerca?
Lo scopriremo nelle prossime settimane. Anticipo solo che una storia spesso non è solo quello che dice, ma anche quello che svela.