Come macchine impazzite

Creato il 10 gennaio 2015 da Letteratitudine

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

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Gianpiero Capra e Stephania Giacobone
“Come macchine impazzite”
Agenzia X, 2014

di Claudio Morandini

È un’interessante operazione “Come macchine impazzite”, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, “Come macchine impazzite” rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”
Tra le righe, nell’esperienza seminale dei Kina rivissuta dalla Giacobone si coglie un intento “pedagogico” che contraddice tanti cliché sul punk. Stephania nota come le fasi cruciali di una vita siano sempre segnate da un disco: per lei, il disco kiniano dell’iniziazione, o meglio della rivelazione, è stato “Questi anni”: autoproduzione, autogestione, antagonismo, sono concetti che l’adolescente Stephania sente già propri e che trovano nell’esperienza dei Kina un riferimento trascinante.

Stephania racconta dapprima di una Courmayeur, suo paese natale, ben diversa dalla località promossa dalle strategie di marketing: ne fa un luogo svuotato, “spoglio, in cui le mezze stagioni erano l’isolamento da tutto e da tutti”. Risale a questa fase iniziale una sorta di sensibilità al rumore che finirà per assumere quasi una funzione proustiana e il valore di un’epifania: “Il rumore dell’acciaio” della pistola del padre lasciata cadere “sul pavimento di legno era un’eco metallica sorda. Avrei ritrovato lo stesso suono nei giri di batteria di alcune canzoni punk”. E, poco prima: “Avevo bisogno di una musica che diventasse il grido che avevo soffocato e la rabbia mai espressa”. E soprattutto, a proposito delle interminabili domeniche in famiglia, scandite dai rumori della televisione e dei programmi sportivi: “Spaccavo il ghiaccio a morsi. Mi piaceva il rumore che faceva, mi piacevano i rumori striduli e spaventosi. Il rumore della pistola sul pavimento di legno. Il rumore della mamma del mio migliore amico Diego che urlava di dolore e lanciava la bottiglia contro il muro.” È insomma il racconto di un’iniziazione al “rumore” come dotato di spessore semantico e la scoperta di una vocazione (Quei rumori… “mi hanno fatto capire che la via di fuga era nascosta nel mio stesso inferno”).
Come Courmayeur, anche Aosta, in cui la Giacobone si traferisce qualche anno più tardi, è descritta come un non-luogo, una città solo di nome, o “per errore”, di fatto un paese di poco più grande di quello da cui proveniva, e allora “una camera anecoica”.
“All’epoca della mia adolescenza” mi dice Stephania “avevo solo Aosta come città di riferimento, volevo tutto e subito, volevo spazi, rumore, festa. E non c’era nulla di tutto questo. Ecco il motivo della mia definizione della città di allora come camera anecoica e il mio estremo bisogno di suono. Poi, la città di riferimento negli anni dell’Università per me è cambiata, è diventata Torino, dove il rumore non mancava, non mancavano gli spazi occupati, la vitalità del teatro, della musica, della cultura. Dopo otto anni di Torino, tornare ad Aosta è stata inizialmente una scelta obbligata, poi una piacevole riscoperta. Aosta è anecoica come sempre, forse peggio, ma io ho trovato il suono che voglio ascoltare, quando voglio, e se mi va di sentirlo suonare dal vivo, Torino è vicina.”
Emerge sempre più chiara la definizione di un punk che rompe gli schemi e libera energie represse, assimila le paure e le angosce e ne cava qualcosa di nuovo e di vero, rappresenta una “via d’uscita e un antidoto al veleno del presente”, e diventa infine, nella sua fase matura (con “Parlami ancora”, del 1992) una sorta di sintesi consapevole delle ribellioni e le lotte di tutti i tempi. Vale la pena citare le parole con cui i Kina presentavano l’LP al momento della sua uscita: “Le idee e le battaglie ci parlano ancora: noi proviamo ad ascoltare l’eco di ieri per costruire nuovi suoni oggi, sperando che questo disco parli ora e in futuro a te e a coloro che verranno”. È una dichiarazione di poetica e di politica, insieme ambiziosa e umile (“proviamo”, “sperando”), in cui il legame con il passato nutre la ricerca del presente e del futuro e che travalica ogni definizione di genere. “È l’essenza del punk hardcore” mi conferma Stephania. “È quel che mi ha formata da sempre. Sono le idee e le battaglie che ho fatto mie negli anni. E come ho fatto io, avranno fatto molti altri.”
La musica dei Kina finisce per avere una funzione insieme terapeutica e catartica: scatena l’urlo, e insieme “cuce le ferite e cura gli ematomi”; evoca gli angosciosi e mai rimossi “rumori” sintomi di ingiustizia e allo stesso tempo li formalizza e li ricompone in un tessuto che li spiega e li domina: esalta e appiana. Musica e testi dei Kina sono inframmezzati al racconto e collegati a momenti della vita dell’autrice come se ne avessero previsto lo svolgimento o come se la scoperta di quei testi rappresentasse l’indicazione di una svolta, la rivelazione che quello che le accadeva non riguardava solo lei, ma era tappa di un percorso comune.
Quanto ai dettagliatissimi capitoli firmati da Capra, vi notiamo grande determinazione, insoddisfazione e caparbietà (nel senso migliore), desiderio di imparare e mettersi in gioco continuamente, fino allo sfinimento; io vi leggo anche l’elogio dell’onestà intellettuale, della sincerità, anche (paradossalmente) della pazienza. Il suo resoconto è privo di quel macchiettismo fin troppo facile a cui molti ricorrono in casi simili, eppure è divertente, schietto nel descrivere prove, concerti, cambiamenti di formazione, fondazione dell’etichetta indipendente Blu Bus, e soprattutto la serie impressionante di concerti in giro per l’Europa.
“Ci sarebbe bisogno anche oggi di qualcuno come i Kina” mi confida Stephania. “A livello musicale ci sono nuovi gruppi punk hardcore non male in Italia e all’estero. La crisi dovrebbe essere terreno ancora più fertile per far nascere il conflitto, la dissidenza e la voglia di produrre musica in linea con l’attitudine della protesta. In realtà molti gruppi, fortunatamente non la maggioranza a mio parere, si abbandonano a un cinismo musicale, anziché riportare in vita quella che era l’agitazione del punk hardcore, perché sembrano dire «Se è morto, non sarò io a risuscitarlo».”


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