Ma le analogie con lo storico forte indipendentismo basco e catalano finiscono qui, proprio perchè il secessionismo in Ucraina orientale è qualcosa di inedito, che ha radici negli eventi recenti più che nella Storia. Forse è per questo che l’ipotesi-secessione sembra ormai tramontare man mano che i colloqui di pace vanno avanti in quel di Minsk.
Gli ucraini dell’Est non vogliono staccarsi dall’Ucraina, perchè loro stessi sono ucraini: parlano russo, hanno profondi legami storici, economici, culturali con la Russia ma, a differenza dei loro (ex) connazionali della Crimea, non sono russi. Sono ucraini, e ci tengono anche a sottolinearlo: diversi sondaggi, tenuti nel Donbass all’indomani del referendum che sancì l’annessione della Crimea alla Russia, mostrarono come i cittadini delle neocostituite repubbliche di Donetsk e Luhansk preferivano invece restare indipendenti, piuttosto che confluire anch’essi nella Federazione Russa, dove sarebbero diventati nulla più che una piccola minoranza, per giunta schiacciata nella sua autonomia dal forte centralismo di Mosca.
Che, a dispetto dei timori di Usa, Ue e Nato, dal canto suo nemmeno è interessata più di tanto ad allargare ulteriormente i propri confini. Per averne conferma, basta interpretare la terminologia usata in Russia per descrivere dall’inizio della crisi i ribelli dell’Est: nei comunicati emessi dal Cremlino e dai media più filogovernativi i ribelli sono sempre “federalisti”, anzichè “secessionisti” o “indipendentisti” come invece erano definiti quelli della Crimea.
Nel nome della lingua comune, della secolare sindrome d’accerchiamento di cui soffre la Russia e delle imponenti riserve di shale gas presenti a Donetsk, Putin cerca con le regioni orientali ucraine legami sempre più stretti: che tradotto vuole dire influenza, ma certo politicamente più gestibile di un’ingombrante annessione.