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Come nasce il ministero per i beni culturali e ambientali? Intervista al Prof. Francesco Sisinni

Creato il 05 ottobre 2010 da Giovannipaoloferrari
Come nasce il ministero per i beni culturali e ambientali? Intervista al Prof. Francesco Sisinni

 

INTERVISTA al Prof. Francesco Sisinni
Università LUMSA – Roma
Come nasce il ministero per i beni culturali e ambientali?
Nasce da una forte volontà e chiara intuizione di Aldo Moro, che pensava da tempo ad un Ministero autonomo per i beni culturali e ambientali. Quando da Ministro degli Esteri diventò Presidente del Consiglio dei Ministri potè realizzare questa intuizione, questo moto che già aveva avuto esito in un ministero senza portafoglio l’anno prima con il governo di Mariano Rumor. Moro chiamò Giovanni Spadolini a istituire, reggere e organizzare questo ministero, sia perché faceva parte del Partito Repubblicano Italiano ed il governo di allora era formato dalla DC e dal PRI, sia perché era un uomo di grande cultura e grande sensibilità. Fui coinvolto con pochi altri in questa avventura e, così, salii su quello che Spadolini chiamava il “bus dell’utopia”! Naturalmente la struttura esisteva perché il ministero si realizzò sulla Direzione generale delle antichità e belle arti che apparteneva al Ministero della Pubblica Istruzione assieme alla Direzione generale delle accademie, biblioteche e diffusione della cultura, parimenti alla pubblica istruzione e successivamente sulla Direzione generale degli archivi di stato che apparteneva – invece al Ministero degli Interni, che ebbe anche, a completare il contesto, alcuni uffici della Presidenza del Consiglio che riguardavano l’editoria e le competenze della discoteca di stato.
Il ministero fu presentato con lo stesso discorso programmatico del capo di governo: nel dicembre del 1974 Moro presentando il suo programma di governo, diede largo spazio alla creazione del Ministero per i beni culturali che veniva realizzato con uno strumento atipico ovvero con un decreto legge, atto di necessità ed urgenza, che – di certo – non è un provvedimento con cui si istituiscono i ministeri dato che vengono istituiti per legge. Ma Moro sostenne che era tanta la necessità e tale l’urgenza d’intervenire che si giustificava il ricorso al decreto legge, che fu convertito molto prima dello spirare dei 60 giorni. Invero quell'iniziativa si avvalse di un’alta tensione morale che si era formata nel Paese: c’erano state le Commissioni Franceschini e Papardo e anche gli oppositori finirono per collaborare. Parlo in modo particolare del Partito Comunista Italiano, che per ragioni di schieramento era contro di noi, ma l’ingresso degli archivi nel novero del nuovo ministero fu possibile anche grazie ad un emendamento che fece in comunione il Senato, per inserire questo settore e quindi integrarli nella struttura ministeriale, perché gli archivi venivano considerati più dal punto di vista giuridico-amministrativo che dal punto di vista culturale. Invece sono istituti di cultura sia perché conservano documenti di grande rilievo culturale, sia perché sono luoghi dove si fa la storia, perciò, di grande profilo culturale.
Il ministero nacque per decreto legge convertito nella legge n. 5 nello stesso anno, il 1975, che fu un anno prodiggioso: nello stesso anno si ebbe la legge 44 per la tutela del territorio; per i custodi da nominare, si ebbe una legge eccezionale per l’apertura della biblioteca nazionale centrale di Roma; tante provvidenze che resero possibile il varo del ministero. Devo anche aggiungere che dopo la chiusura dell’esperienza di partito di Aldo Moro, subentrò un ministro colto e intelligente, Mario Pedini, con il quale ebbi un’intesa totale: uomo di altissima sensibilità, cristiano, bresciano. Svezzò il ministero.
Il ministero che si creò dopo lunghissimo dibattito portava con sé la dicitura “per” non “dei” beni culturali, nato - quindi - come struttura fornitrice di servizi: la cultura si fa altrove, nelle aule universitarie, nei luoghi di ricerca, noi nascevamo invece per tutelare, valorizzare i prodotti della cultura, i beni culturali.
Avevamo – poi – adottato una visione unitaria e contestuale per cui i beni non erano solo culturali, ma anche ambientali. Dovevamo, perciò, interessarci di tutte le emergenze e delle situazioni meritevoli di tutela oggettive e non solo dei singoli beni, i singoli complessi monumentali, ma anche il contesto, l’ambiente, che non è la sola cornice dei beni culturali, ma rappresenta lo stretto rapporto sia storico sia geografico e – quindi – culturale con il bene stesso.
Successivamente, 10 anni dopo, venne fuori il Ministero dell’Ambiente, col II Governo Craxi nel 1986. Noi ci interessavamo di paesaggio, questo nuovo ministero doveva seguire più le problematiche ecologiche, l'assetto ecosistemico, ma - in effetti - c’è un rapporto intrinseco tra ecosistema-ambiente in senso lato e paesaggio, il paesaggio fa parte dell’ambiente, l’ambiente entra nel paesaggio.
Quindi lei come giudica la nascita del MATT?
Non positivamente, perché quel ministero è nato in forma atipica: ha la testa, ma non ha il corpo! Non ha organi sul territorio: tale mutilazione significa affidarsi ad altri enti autonomi o territoriali, le Regioni.
In italia è difficile il coordinamento tra le parti soprattutto perché le parti rivendicano una propria autonomia, sono legittimate addirittura a legiferare, a produrre leggi; non è un discorso organico. Si è accentuato, poi, sempre di più il discorso in campo ecologico: forse riguardante la salute dell’ambiente, ma non di una politica ambientale: un atteggiamento che ha portato più a vedere le negatività che le positività e che demagogicamente spesso ha risolto il problema con il divieto non ragionato. Qui entra in ballo Fare Ambiente – Movimento Ecologista Europeo: la sfida che si pone è coniugare la tutela con la valorizzazione.
Si sbaglia facendo solo tutela perché si cade nell’astrazione e si sbaglia facendo solo valorizzazione perché si toglie tutto l’alimento culturale che è il fondamento che offre la tutela, in effetti questi due impegni devono essere unitari nel momento in cui valorizzano un bene, il paesaggio, il territorio. Bisogna tutelare necessariamente per fare fruire.
A tal proposito, qual è la sua visione del sistema delle aree protette in Italia, di tutto quel sistema che è nato attorno le aree protette e naturalmente con la Legge 394/91. Come vede queste aree nell’ambito della divisione territoriale: i parchi nazionali da un lato che dipendono direttamente dal ministero e – invece – le aree protette dalle regioni?
Si sconta il fio dell'impostazione, le origini, il ministero deve curare ovviamente gli interessi pubblici ed è tale se è presente su tutto il territorio, allora vi è uniformità di indirizzo, si parte da un codice organizzativo che deve rispondere a livello internazionale, perché essere ministero non significa solo essere un ente nazionale, ma significa avere l’interlocuzione a livello internazionale. Porsi sempre in rapporto di verifica, di confronto, di collaborazione con gli altri Paesi e mutuare dai buoni esempi. Soprattutto nell’epoca della globalizzazione, bisogna vedere quello che succede all’estero e questo le regioni non lo possono fare. Le regioni finiscono per chiudersi nell’orizzonte territoriale locale. Né, tantomeno, si può dare il contentino alle regioni concedendo le aree protette e tenendo i parchi. Il territorio và esaminato, studiato, analizzato per le peculiarità e le vocazioni che ha: le peculiarità che fanno parte della base della tutela, sono tali perché hanno una loro identità, una specificità che merita di essere necessariamente tutelata, perché parte del patrimonio culturale.
Nella cultura inserisco a pieno titolo l’ambiente e vedo la cultura non come qualcosa di elitario, ma come qualcosa che riguarda il costume stesso, la qualità della vita. I parchi immaginati devono essere corrispondenti ad un certo canone, a dei criteri verificati a livello internazionale. La gestione delle aree protette si risolve spesso in piccole gratificazione locali, ma la tutela non può esser fatta sul sentito dire, ma sulle emergenze, situazioni tali da imporre, esigere tutela e allora ecco il vincolo, ecco quelle provvidenze che salvano e assicurano alle generazioni future il godimento di tali beni che sono beni che contribuiscono al miglioramento della qualità stessa della vita. Reimposterei su queste basi il discorso della protezione del territorio, il parco tra l’altro è organizzato con maggiorazione d’interesse, quindi già con una provvidenza normativa interna, per cui là ove si esige una tutela rigida già è prevista e dopo questa tutela può degradare, allentarsi.
La missione futura del sistema delle aree protette e dei parchi, anche del progetto A.P.E. (Appennino Parco d'Europa) è di abbandonare l’idea di tutela della natura come una continua proliferazione di aree protette da salvaguardare, anche perché siamo arrivati già al 20% del territorio nazionale e, quindi, siamo a livelli internazionali.
Qual è oggi la sua visione dei bene culturali, tenendo in considerazione anche gli interventi che sono stati portati avanti nelle città storiche italiane negli ultimi anni? Per esempio quello che è stato fatto a Roma con l'Ara Pacis.
Gli sventramenti del Gianicolo, come come quelli al Pincio, a Roma, riflettono un’ignoranza prima ancora che culturale, ambientale, perché si tratta di ambienti storicizzati che ormai sono beni culturali. Gli antichi romani durante il periodo repubblicano (451-400 a.C.) si preoccupavano nello scrivere una delle leggi delle Dodici Tavole, che erano norme di carattere soggettivo, facenti parte del diritto privato, ebbene scivevano: “Che non sia deformato l’aspetto della città”; dunque il suo paesaggio, panorama, che si estende sulla natura ma anche sulle emergenze architettoniche storiche artistiche e crea questa fisionomia che è appunto il paesaggio in cui leggiamo la nostra identità, il paesaggio di Roma e così diverso da quello di Londra, Parigi, New York, è la nostra identità. Bisogna avere questa visione unitaria, bisogna soprattutto avere rispetto di ciò che abbiamo ereditato alle volte senza esserne meritevoli; c'è bisogno di una tutela rigorosa, ma intelligente, che sappia sempre coniugarsi con l’approvazione, valorizzazione, con lo sviluppo: non mettendo sotto la campana di vetro un ambiente, un bene, un territorio, perché in questo modo deperisce, muore, se non viene continuamente vivacizzato ed alimentato dall’attualità: quella distensione tra passato e futuro, di cui parlava S. Agostino, si deve risolvere in attenzione. Il santo soleva dire: “Se il passato è memoria e il futuro aspettazione, il presente, in cui noi siamo chiamati a vivere, il presente deve essere attenzione”.


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