Massimo Polidoro racconta le origini del suo primo thriller Il passato è una bestia feroce (edito da Piemme), uscito il 3 marzo e già in ristampa dopo 24 ore.
Come mai Massimo, dopo tanti libri su enigmi, misteri e segreti svelati, hai deciso di scrivere un thriller? Perché è il tipo di romanzi che preferisco leggere sin da quando sono un bambino. Ho sempre sognato di scriverne uno, ma mi rendevo conto che questo tipo di narrativa, per essere efficace, richiede una precisione e un’abilità nel costruire storie coinvolgenti, sorprendenti e capaci di costringere il lettore a voltare pagina che non si possono improvvisare. Così, dopo anni di studio e di preparazione, mi sono finalmente sentito pronto per provarci e con Il passato è una bestia feroce credo di avere scritto forse il mio libro più bello.
Dove nasce l’idea per Il passato è una bestia feroce? Da un fatto in cui credo da sempre, è cioè che il passato non va visto come qualcosa di statico, che ormai è accaduto e non ci riguarda più. Tutt’altro. In ogni momento può accadere qualcosa che ci costringe a riaprire porte che pensavamo chiuse per sempre. È quello che succede al protagonista del mio romanzo, Bruno Jordan, un cronista del periodico Krimen, che un giorno riceve una lettera spedita trentatré anni prima da Monica, una sua amica d’infanzia. Un’amica che, proprio il giorno in cui spediva quella lettera, finita chissà dove e oggi recuperata da una mano misteriosa, scompariva e di lei non si sapeva più nulla. Jordan si ritrova così a tornare sui luoghi dell’infanzia per indagare sulla scomparsa di Monica e quello che scopre si fa sempre più spaventoso, facendogli capire troppo tardi che il passato è come una bestia feroce che forse sarebbe meglio non risvegliare.
La storia si svolge presso un’immaginaria cittadina di provincia, Verazzano, vicino a Pavia. È vero che la provincia si presta meglio della grande città al giallo italiano? Molto probabile. Dietro la tranquillità operosa della provincia, spesso vista come monotona se non addirittura noiosa rispetto alla grande città, si nascondono storie che possono essere terribili. Basta leggere i giornali per vedere come i crimini più efferati abbiano quasi sempre luogo nelle città di provincia. E, per quel che riguarda il thriller, l’ambientazione provinciale credo funzioni bene ovunque. Non a caso un gigante come Stephen King ambienta quasi tutti i suoi romanzi nella provincia americana e non nelle grandi metropoli.
Come si ti sei documentato? Come dicevo prima un thriller non si improvvisa. Per riuscire a scrivere qualcosa di credibile ho studiato per anni, dissezionando i gialli più riusciti, analizzando i film di Hitchcock, Dario Argento e tanti altri, studiando la psicologia della suspense, ma anche entrando in contatto diretto e scambiando idee con alcuni dei più grandi autori di questo genere, come Michael Connelly, Jeffery Deaver o Nelson Demille, che generosamente mi hanno rivelato i loro “segreti”. Quanto ai temi della storia, ho naturalmente dovuto documentarmi sia studiando i fatti di cronaca simili a quelli raccontati nel libro, sia scoprendo come funziona la vita nei luoghi di cui parlo, da una caserma dei carabinieri a un reparto di rianimazione, e questo è stato possibile grazie all’aiuto di esperti e persone del settore che generosamente hanno condiviso con me le loro conoscenze.
Secondo te gli italiani sono in grado di scrivere thriller? Se intendiamo thriller che non scimmiottano quelli americani, ma ne assorbono i meccanismi per riproporli nel contesto italiano, direi proprio di sì. Il primo a riuscirci bene è stato il compianto Giorgio Faletti, ma per fortuna non è rimasto solo. Altri bravissimi, come Donato Carrisi e Sandrone Dazieri, lo stanno seguendo con profitto sulla stessa strada. Dazieri che, tra l’altro, scrive proprio la frase che compare sulla fascetta del suo libro: «Un thriller ad alta tensione. Una storia che ha il sapore del sangue e della verità». È un endorsement che mi fa molto piacere e di cui vado orgoglioso.
C’è qualche fatto di cronaca nera che ti ha ispirato? Certamente, ma non posso dirlo per non rovinare la sorpresa…
Parliamo allora di “fonti di ispirazione”. Qualcuno dei lettori, che ha letto in anteprima il tuo romanzo, trova nella narrazione un po’ di Stephen King… E’ uno scrittore che ti ha influenzato? Mi tremano i polsi solo a pensare a un paragone del genere, non scherziamo! King è indubbiamente uno dei miei scrittori preferiti e credo sia inevitabile che qualcosa di quello che i suoi libri mi hanno regalato mi sia rimasto “attaccato” e, di conseguenza, si ritrovi anche nella mia scrittura. Ma, come lui, devo ringraziare anche altri scrittori che mi hanno “insegnato” l’arte del brivido: Thomas Harris, Michael Connelly, Jeffery Deaver, Robert Crais, Lee Child, Dennis Lehane, Nelson Demille e molti, molti altri. Non ho la presunzione di paragonarmi a tutti questi maestri del romanzo, ma è con estrema gratitudine che riconosco l’importanza che ciascuno ha avuto per la mia formazione. La speranza è che almeno un grammo dell’abilità di ciascuno di essi mi sia rimasta attaccata…
Domanda inevitabile: avrà un seguito questo romanzo? Vedremo ancora Bruno Jordan coinvolto in qualche nuovo mistero? Mi sono affezionato a Bruno: non è il mio alter ego, ma certamente ci sono tanti aspetti della sua personalità in cui mi rispecchio. Perché no, mi piacerebbe continuare a farlo vivere.
Ultima domanda: è vero che hai anche pensato a un’iniziativa speciale per chi acquista il tuo libro? Sì, per festeggiare l’uscita di questo romanzo, a cui tengo davvero tanto, ho deciso che chi acquisterà il libro entro il 22 marzo riceverà fino a 10 regali. Si tratta di un paio di miei libri inediti, video con retroscena esclusivi sul libro, un Manuale per aspiranti scrittori, parti poi tagliate dal libro, una raccolta di miei rari interventi televisivi… Tante piccole cose, ma che ho curato con passione e cura come sempre, per ringraziare chi deciderà di scoprirmi non solo come saggista ma anche come narratore. Chi fosse interessato non deve fare altro che andare qui