Come Partire per l’Oman e Fare Finta Di Niente

Creato il 27 novembre 2015 da Sunday @EliSundayAnne

Stanotte non ho chiuso occhio. L’altra sera c’è stata una scossa di terremoto, tira vento di guerra, la mia gatta mi ha tolto il saluto da ieri e mia mamma fa finta di niente.
Io devo partire per l’Oman, e tutti fanno finta di niente.

Non so da voi, ma a casa mia quando si sta male dentro, si cerca sempre di far finta di niente. Si sdrammatizza. Si inventano lavori di casa, e tutto per non guardarsi negli occhi, per paura che gli altri possano capire che non si è indifferenti.

Per sdrammatizzare eventi dolorosi abbiamo sempre utilizzato l’ironia. Io e mia mamma. Perché mio papà ha sempre avuto un senso dell’ironia pari a zero. Lui è un pratico, un duro, uno che si è fatto da sè, un politico. Non ha tempo per l’ironia, lui. Bisogna lavorare! Andare avanti! Accumulare! E pazienza se poi ha il cuore tenero come quello di un criceto: non lo darà mai a vedere. Ma noi – che lo conosciamo bene – lo sappiamo e facciamo finta di niente.

Mia sorella è un caso a sè: con lei utilizziamo un linguaggio inventato da noi quando eravamo piccole, quando lei, forte dei sei anni di differenza, mi comandava in tutto, anche nei giochi. E io obbedivo felice. Già, perché lei è l’unica che mi può ancora comandare, e io sto (quasi) sempre zitta. Anche con lei si applica l’arte del far finta di niente: le emozioni ci imbarazzano.

Ma non divaghiamo.

Ieri sono andata a casa mia a rimettere le cose nello zaino: stavolta parto più leggera rispetto a quando partii per l’India, lo scorso luglio. In viaggio mi sono liberata ancora di più del superfluo: vestiti di cui posso fare a meno e pesi esistenziali.

Non so voi, ma io aspetto sempre l’ultimo momento per fare le cose: “Oddio non ho copiato quei CD sul computer! La pila dell’orologio è scarica! Non ho fotocopiato le pagine importanti di quel libro! Ho dimenticato di telefonare a mia zia!”, le solite cose che avrei potuto fare in tre settimane con calma, e invece lascio all’ultima mattina. Quando sono con l’acqua alla gola e dall’agitazione non capisco più niente.

L’Italia mi assopisce: la prima settimana ero carica di India, spezie e santoni, la seconda ero tiepida, la terza addormentata.

Prima di svegliarmi a sessant’anni ed essere ancora qui, una mattina ho fatto un biglietto di sola andata.

Sarei dovuta andare in Africa a trovare una ragazza conosciuta al Kopan Monastery in Nepal, ma poi ha avuto un intoppo e così ho dovuto riprogrammare la partenza. Il giorno dopo averlo appreso arrivò un segnale: ricevetti le email di un paio di tour operator dell’Oman in cui mi chiedevano se fossi disponibile a guidare un paio di tour a dicembre.

E così decisi di seguire di nuovo i segni, quelli che a volte non vogliamo vedere perché desideriamo tanto che le cose andassero come vogliamo noi. In India ho imparato a non programmare, a seguire il flusso degli eventi, a starmene tranquilla e vedere dove la vita mi vuole portare.

E’ inutile insistere: è la vita che decide. Quando segui i segni, tutto scorre senza intoppi.

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Da Dharamshala a Nuova Delhi, da Goa a Varanasi, da Delhi a Kathmandu, tutto è andato come doveva andare.

Ecco come si deve fare:

ci si alza la mattina e si ascolta il battito del proprio cuore: è calmo? E’ regolare? Ha un tumulto? C’è tachicardia? Ho il cuore pieno di gioia? Come respiro stamattina? Mi sento soffocare solo all’idea di…?

Si parte da lì. Dalle sensazioni che non vorremmo sentire.

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Si deve partire dal far finta di niente. E svegliare il cuore.

Sono le undici ed è già tutto pronto: lo zaino (E’ troppo pesante, basta, è l’ultima volta che parto senza trolley!), la sacca, il laptop, la reflex. Non manca che il giro di perlustrazione degli affetti: il giro di quelli che fanno finta di niente.

Mia mamma sta stirando: lo so perché ha acceso la radio, probabilmente la sua amata Radio Zeta, visto che c’è la musica liscio a tutto volume. Lei è così: quando è allegra o quando è triste, attacca sempre una mazurka e canta da sola. Faccio capolino dalla porta e la vedo lì, col grembiule, il ferro da stiro e la faccia preoccupata. E canta. Ho un nodo in gola.

“Partire di questi tempi! Non dormirò finchè non sarai atterrata in Oman! Mandami un sms a ogni scalo!”. Le mamme soffrono, stirano, soffrono, lavano, soffrono, cucinano, soffrono. E tutto facendo finta di niente.

Il compito di una mamma è non far preoccupare gli altri, anche se dentro muore un po’ lei.

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La mia gatta è sul mio giaciglio che dorme. Dorme ma è sveglia, come solo i gatti sanno fare quando sanno che qualcuno sta per partire. E’ girata dall’altra parte, la accarezzo e non fa una piega. La bacio lentamente sulla testa, per sentire un’ultima volta l’odore di gatto. Non fa una piega, ma sento che non è tranquilla: è lei la regina del far finta di niente.

Poi arriva mio papà, che mi guarda sorridendo: “Non so come farai, senza la gatta!”. Il suo far finta di niente è così: dice della gatta, ma parla di sè. E scappa via.

Sono le tre, mia sorella e mio nipote sono in cortile sulla macchina che mi stanno aspettando. Do un bacio a mia mamma, e lei asciuga un piatto. Do un bacio a mio papà, e lui mi parla del gatto.

Salgo sulla macchina: il cancello automatico si chiude alle mie spalle. La gatta mi guarda accucciata vicino alla siepe.

Dietro la tenda del tinello, due sagome. Mia mamma. Mio papà.

Arrivo all’aeroporto con il collo che si chiude e scendo dalla macchina di corsa. “Ti mando un messaggio quando arrivo a Muscat!”.

Due baci veloci e scappo via, col carrello strapieno, la sacca che striscia, lo zaino che cade, la reflex che scende, il laptop che pende.

Mi volto: mia sorella mi sta scattando una foto col telefonino, dal finestrino abbassato.

Devo infilarmi nelle porte scorrevoli prima che mi veda questa lacrima maledetta che scende sulla sacca.

Poi un suo messaggio: “Mi spiace che parti”.

Anche a me.

Mi sa che l’unico modo per non tornare indietro di corsa è fare finta di niente.