Sì, ho già usato questa foto. Però, be’, è mia!
C’è un aspetto che mi pare sia interessante, ed è il seguente.
Da quando ho aperto la mia pagina Facebook, i post nascono da idee, pensieri condivisi su quella rete sociale tanto bistrattata (da me, ovvio). Butto lì una riflessione da quattro soldi, come sono spesso le riflessioni fatte di fretta e furia, e poi mi rendo conto che lì, in quelle paroline senza importanza, ebbene, ci può essere qualcosa di buono.
Da sviluppare in un post.
La nascita di una nazione? Macché: di un titolo
Ed eccolo allora il post. “Cinzia” è un racconto che fa parte della raccolta di racconti “Non hai mai capito niente”, e se lo desideri puoi persino leggerne un pezzo, così, per vedere l’effetto che fa.
Quindi è il primo capitolo (se lo vogliamo chiamare in questo modo) della celeberrima #trilogiadelleerbacce.
Come? Non ne hai mai sentito parlare? Ma si capisce: sto lavorando per renderla celebre, anzi no: celeberrima. Tanto per iniziare, c’è la pagina che ne parla, così saziamo la tua vorace curiosità.
Ma sto divagando.
Dicevo del titolo di questo racconto, che era chilometrico, ma c’era un motivo. Si trattava della risposta che Cinzia, la protagonista, dava al padroncino per il quale lavorava. Lui le fa i complimenti, le dice che ha sempre fatto tutto per bene, mai un intoppo, un problema, o una lamentela da parte dei clienti. E lei invece di ringraziare che ti va a rispondere?
Cinzia si voltò:
– E che ci vuole a tenere un volante in mano?
Magari poteva essere più gentile. Ma perché essere gentile?
Lavorava in nero. Per lei era comunque grasso che cola, però sapeva bene che non ci voleva proprio niente.
Sali sul furgone, guidi, consegni, risali sul furgone, guidi, consegni, risali sul furgone, guidi, consegni…
È chiaro il quadro?
Perché ho cambiato il titolo? Ammesso che “Cinzia” sia migliore di “Che ci vuole a tenere un volante in mano”, ha dalla sua il fatto di essere conciso. Di puntare l’attenzione solo sul personaggio. Lo leggi, e sai di che si parla. È quello il centro della storia, guardalo con attenzione. E poi c’è anche quel foulard che mette sempre al collo…
Forse quello chilometrico aveva il vantaggio di incuriosire? Può darsi.
Credo (ma non ne sono affatto sicuro), che a volte si debba sacrificare qualcosa, apportare qualche modifica affinché sia ben chiara la posta in gioco. Forse, se avessi lasciato il titolo originale il lettore non avrebbe seguito con la medesima attenzione questa giovane donna sola, che prova a ripartire. Avrebbe seguito, come un segugio, il racconto e una volta compreso il senso del titolo, sarebbe stato soddisfatto. E non avrebbe apprezzato il finale.
Questioni di lana caprina? Non ne sono così sicuro. Qualcuno potrebbe farmi notare che una casa editrice farebbe il lavoro svolto da me, e in modo più efficace: e avrebbe messo un altro titolo. Oppure avrebbe optato per quello chilometrico. Ne sono certo; ma siccome mi auto-pubblico, cerco di arrangiarmi come posso. Ci penso su, ci rifletto.
Tento di capire se il titolo (senza il quale io non riesco a partire: di certo è un mio vezzo), è quello adatto per la storia. Ma che cosa significa esattamente “adatto”?
Bella domanda.