Non esiste un solo modo di scrivere in collettivo, ovviamente. Il “metodo” Kai Zen si differenzia in due tipi, a seconda che si scriva un romanzo tradizionale a partecipazione chiusa oppure uno di quegli esperimenti di Romanzo totale.
Nel primo caso strutturiamo innanzitutto una trama, in genere badando a distinguere più linee narrative da intrecciare fra loro. Nella seconda fase, ciascuno di noi scrive seguendo una delle linee narrative e invia i capitoli o anche i semplici paragrafi agli altri non appena li ha finiti, in modo che gli altri possano immediatamente metterci le mani e restituirglieli corretti, modificati, glossati, per ottenere nel più breve tempo possibile una versione implementata. Questo avviene a ogni riscrittura o semplice revisione per ciascuno dei Kai Zen: lo stile KZ nasce così. Un’amalgama basata sull’obiettività. Infine si monta tutto quanto e si avvia una nuova fase di editing.
I Romanzi Totali invece, li progettiamo in modo più libero. Scriviamo un primo capitolo, un canovaccio di trama abbastanza generico, un bestiario (ossia un elenco di possibili personaggi da utilizzare con relative caratteristiche, aspetto fisico, inclinazioni ecc.) e seguiamo lo sviluppo della storia proseguita da chi partecipa all’esperimento con cadenze precise. Se necessario, interveniamo con qualche direttiva qua e là per tenere la barra della narrazione ben dritta, un po’ come un regista, più che come uno scrittore.
Questi appena descritti non sono, come detto, le uniche vie. Ad esempio c’è un metodo elaborato da Gregorio Magini e Vanni Santoni chiamato S.I.C., Scrittura Industriale Collettiva, che si basa sulla compilazione di schede narrative da parte dei vari partecipanti al progetto, le quali vengono poi gestite da un direttore artistico che non scrive ma si limita a coordinare il tutto.
L’organizzazione, la pazienza e la capacità di prendere la giusta distanza da ciò che si scrive sono comunque e sempre i requisiti più importanti per uno scrittore collettivo. La regola numero 1 è non innamorarsi delle proprie parole, non scandalizzarsi a vederle violentate dall’intervento altrui. L’intervento del compagno di scrittura nove volte su dieci è migliorativo e bisogna accettarlo di buon grado. Certo, bisogna trovarsi dei compagni di cui ci si fida. Questo è il minimo.