“Gli abitanti della Città (Palermo ndr) credono di essere estremamente complicati. Si offendono delle semplificazioni che li riguardano. Esiste un genere di imbarazzata suscettibilità che accomuna isolani ed ebrei, due popoli che hanno fatto del senso di colpa un tratto caratteriale collettivo costante. A pensarci bene però, gli isolani sanno benissimo a cosa è dovuto il loro senso di colpa: credono di essere in debito nei confronti del mondo perché dalla loro isola la mafia si è ramificata nel mondo e lo ha impestato. Gli isolani, anche quelli onesti, nel loro profondo sentono di appartenere a una stirpe di untori. Sono persino pronti ad ammetterlo, e anzi sono i primi a parlare malissimo della loro Città, proprio come gli ebrei parlano male di sé stessi. Allo stesso tempo però – ancora una volta: come gli ebrei – non accettano che siano gli altri a parlare male di loro. Pur non ritenendosi all’altezza del resto del mondo non ritengono il mondo alla loro altezza”
Roberto Alajmo,” Palermo è una cipolla”
“Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me”.
Io&annie, Woody Allen, 1977
Forzata o no, il paragone tra il popolo ebreo e quello siciliano mi affascina. Ok, hanno passati molto diversi, bisogna considerare i diversi meccanismi storici. Però qualcosa di comune c’è.
Entrambi hanno uno humor piuttosto efferato, brutale, spesso giudicato “di cattivo gusto”. L’altra faccia della medaglia di un pessimismo che è radicato, viscerale, senza requie. È Verga con i suoi miti neri e terrosi, i suoi teoremi dell’ostrica, Pirandello con il suo sguardo angosciato, Tomasi di Lampedusa con la sua sfiducia perenne. Del pessimismo ebraico manco c’è bisogno di fare esempi. È un luogo comune ben rappresentato da Woody Allen nel suo ultimo film “Basta che funzioni”, con il protagonista che si sveglia nel cuore della notte gridando L’Orrore, L’Orrore.
Entrambi i popoli hanno una grande letteratura, un grande cinema, una grande narrazione. Entrambi hanno sentito nelle budella l’urgenza di raccontare e soprattutto di raccontarsi. Forse una ridefinizione continua della propria identità. Un tastarsi il polso. Mi racconto dunque sono.
Leonardo Sciascia girava il mondo – viveva a cavallo tra Parigi, Roma e Regalbuto – ma ambientò le sue storie tutte in Sicilia, metafora del mondo. Philip Roth ha scritto decine di romanzi, si atteggia da intellettuale coscienza della nazione, ma non è mai riuscito a staccarsi veramente dai borghi ebraici del suo New Jersey. Un’identità che non si scolla, non se ne va. Non si scappa. Qualunque cosa fai.
E infine l’impossibilità del non essere le proprie radici. La beffa della coercizione di sangue. È Coleman Silk che – ne La Macchia Umana di Philip Roth – riesce faticosamente ad affrancarsi dal proprio essere negro. Aveva la pelle così bianca, Coleman Silk, che riuscì a registrarsi all’esercito come bianco. Abbandonò la propria famiglia e mantenne il segreto, raggiungendo tutti i propri obiettivi, finchè il destino beffardo non gli si rivoltò contro: per un malinteso fu espulso dall’Università dove insegnava. Gli studenti e il corpo insegnanti lo accusarono di razzismo. O come – perché no – Mattia Pascal che non riuscì a cambiare identità in Adriano Mehis. Le costrizioni ci si avvinghiano intorno. E millenni di storia che non si lavano via con un colpo di reni personali.
Il risultato? Una personalità collettiva spesso nevrotica, vulnerabile, dissociata. Con molti rischi. Scrive sempre Philip Roth nel suo capolavoro Lamento di Portnoy: “Secoli e secoli senza una patria avevano prodotto uomini sgradevoli come il sottoscritto: impauriti, diffidenti, auto denigranti, evirati e corrotti dalla vita nel mondo dei gentili. Erano stati proprio gli ebrei della Diaspora come me a finire a milioni nelle camere a gas senza nemmeno alzare un dito contro i loro persecutori, incapaci perfino di difendere la vita con il proprio sangue”.