(c) 2011 weast productions. Ramallah. Un bar. Ma non è la libertà.
Un ragazzino alto un niente, nervoso come un cagnetto incrostato e senza guinzaglio perso nel traffico all’ora di punta. Ha appena scagliato una pietra, un sasso grande un niente. Davanti a questo bambino palestinese, alla distanza di sicurezza che l'istruzione al combattimento tattico impone, otto soldati israeliani, schierati al centro di una rotonda: nervosi anch'essi, vestiti come in guerra, i fucili spianati. In mezzo ai due fronti un uomo che, improvvisamente, scaglia un sasso verso il bambino, mancandolo di proposito, ma facendolo correre acasa. L'uomo si volta verso i soldati e, con grandi gesti, li esorta ad andarsene anche loro. E se ne vanno, a bordo di enormi veicoli blindati. Sulla strada che porta a Qalandya, il grande posto di blocco a nord di Gerusalemme che conduce a Ramallah, va in scena il conflitto israelo-palestinese: non come lo conosciamo, ma come sarebbe potuto essere, con due parti in conflitto e un mediatore imparziale, capace e disposto a cantarle a tutti, israeliani e palestinesi. Scena di folgorante eloquenza, reale eppure così lontana dalla realtà. Gli Stati Uniti, attori principali nel processo di pace, la stessa Unione europea, non sono mai stati imparziali. Arbitri scesi in campo con il risultato della partita scritto sul taccuino. Truccato. Fossero soltanto i palestinesi a sostenerlo, potremmo anche sentirci puzza di bruciato. Lo dicono, invece, anche autorevoli organizzazioni israeliane, ciascuna specializzata nel suo settore: diritti umani, colonizzazione, controllo delle falde idriche, politica demografica. Frammenti che, incollati insieme, compongono un quadro chiaro: lo appendi alla parete e ti accordi che pende da una parte. Basta girare la testa di novanta gradi dalla scena appena descritta alla rotonda di Qalandya per capire da quale parte: ovunque sorgono ordinate casette dal tetto in tegole, disposte a corona sulle cime delle colline (controllate le colline, non si stancava di ripetere Ariel Sharon). Sono le colonie israeliane, sorte in Cisgiordania, terra conquistata da Israele nel 1967 alla Giordania, che amministrava i Palestinesi che ci vivevano. Allora c'era stata una guerra d'aggressione a cui Israele aveva risposto. Oltre mezzo milione di coloni vivono, oggi, nella Cisgiordania che il presidente palestinese Mahmoud Abbas si appresta a chiedere di dichiarare Stato al mondo riunito a New York. Nessuno è mai riuscito a convincere un governo israeliano a sospendere seriamente la costruzione di colonie in Cisgiordania. Supero il posto di blocco, entro nel campo profughi di Qalandya. Seduti sui muretti, poco distanti dalle torri in cemento dalle quali i soldati israeliani controllano la zona, decine di ragazzini. Non vedono l'ora di cominciare, di tirare sassi, di prendersi nuvoloni di gas lacrimogeno israeliano, pallottole calibro 5.56 ricoperte di gomma, bastonate e manette ai polsi. Incarnano le esistenze spezzate dei campi profughi. Centinaia di migliaia di ragazzini lasciati senza una vera istruzione, con un solo slogan nella testa: sacrificarsi per la Palestina. Obbediscono agli ordini dei capiquartiere, dei capisquadra, adulti che hanno fatto l'Intifada del 1987, qualcuno, oggi cresciuto, anche quella del 2000. L'Autorità palestinese, decisa a chiedere all'ONU di tenere a battesimo lo stato di Palestina, non se ne è mai curata. Servita, invece sì. Senza nulla da perdere, senza nulla da sognare, senza una vita nella quale investire i propri sogni, i giovani “shebab”, i ragazzi dei campi, sono sempre stati pronti a mobilitarsi: a tirare pietre, a sparare ai coloni, a farsi saltare in aria nei ristoranti e sugli autobus israeliani. Carne da macello a disposizione di una strategia della liberazione fallimentare. All'Autorità palestinese non sono mai piaciute le voci (poche, in realtà) che chiedono di ripensare le strategie della liberazione, che rivendicano la possibilità di costruire una società senza sacrificarla sull'altare della liberazione stessa, ma senza, per questo, sacrificare la lotta per l'indipendenza. Per i vertici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina l'esercito dei giovani nati nei campi profughi non ha mai avuto diritto a un riscatto anteriore il riscatto finale, quello della realizzazione del sogno di una patria. Chi nasce profugo sopravvive da profugo. Tutta una vita. L'ultima curva e sono a Ramallah. Va tutto bene. Stanno spuntando nuovi palazzi ovunque, per strada il traffico è abbondante e caotico, circolano belle macchine, la gente fa acquisti e la borghesia paga affitti di tutto rispetto. I cartelloni pubblicitari invitano a comprare cellulari, a cambiare gestore, a buttare il vecchio frigorifero. E a fare festa, perché l'Autorità palestinese è a New York per trasformare i Territori Palestinesi Occupati nello stato membro numero 194 chiamato Palestina. Sembra di stare a Hollywood. Quinte meravigliose, ma in cartone. Tenute insieme con la colla. Come le esistenze dei figuranti che popolano la città. Ramallah è una bolla di sapone, un esperimento finanziato dalla comunità internazionale, Stati Uniti, Europa. Per levarsi di dosso il senso di colpa di un approccio parziale e infruttuoso al conflitto israelo-palestinese e alle rivendicazioni dei palestinesi, ma soprattutto per capire se il denaro anestetizza le aspirazioni di un popolo, cominciando da una popolazione: quella di Ramallah. Il pensiero nascosto è questo: se l'esperimento funzionasse potrebbe essere tentato altrove, in tutta la Cisgiordania. La generosità dei donatori avrebbe così risolto il conflitto israelo-palestinese: addormentandolo. Non funziona. Ramallah dorme, ma ha un sonno leggero. La finzione di una vita normale è un cosmetico applicato su una ferita aperta. In albergo chiamo un mio amico, un giornalista di Gaza. La gente ha paura, è in preda all'angoscia, mi spiega. Il voto sulla Palestina alle Nazioni Unite costituisce un'incognita per la popolazione della Striscia, per la quale nulla è cambiato: la stessa terra chiusa, gli stessi confini difficilmente attraversabili, lo stesso controllo esercitato dagli israeliani, dagli egiziani (anche dopo la “rivoluzione”), da Hamas. Temono, gli abitanti di Gaza, che la loro condizione possa addirittura peggiorare dopo la sfida lanciata dal presidente Mahmoud Abbas all'ONU, che la spaccatura politica e geografica fra la Striscia e la Cisgiordania possa farsi ancora più radicale: qualcuno (Israele, gli Stati Uniti?) potrebbe essersela presa davvero e complicare l'esistenza di una popolazione distribuita su una striscia di sabbia e abituata a pagare per tutti. Gaza non è Ramallah. A Gaza è tutto vero. Niente quinte in cartone. I soldi, se qualcuno li ha mandati, non si sono mai visti. (La Regione, 23.9.2011)