Come vivremo le nostre emozioni negli eventi del futuro?

Creato il 26 febbraio 2014 da Sdemetz @stedem

Dove non ci sono standard non ci può essere kaizen.

Kaizen significa miglioramento continuo e queste sono le parole di Taiichi Ohno, l’artefice del Sistema Toyota.

Io ho studiato con grande passione alcuni libri che spiegano il kaizen. Libri che raccontano cose tanto semplici da sembrare ovvie. Il kaizen spiega l’efficienza attraverso la standardizzazione. E nel mio stesso lavoro ho applicato, nel piccolo, alcune regole d’oro e, sì, anch’io lavoro sugli standard, perché accelero i processi, perché ottengo maggiore controllo, perché corro meno rischi.

Eppure, talvolta mi fermo e mi chiedo se tutto ciò abbia sempre senso. Alcuni giorni fa un’autorevole persona mi ha detto: va bene la professionalizzazione, ma la dimensione umana dove finisce?

E non è solo la dimensione umana a essere sacrificata nei processi di standardizzazione. Pensiamo ai call center che ci fanno mancare la sensazione di parlare con l’impiegato, vicino di casa.

Oltre all’umano, ciò che un eccesso di standardizzazione comporta è la perdita di forza innovativa, il piacere del rischio, il coraggio di osare.

Se penso agli eventi – sportivi o culturali – a guardare bene bene effettivamente qualche domanda ce la potremmo porre. Il management sempre più professionale – o per lo meno è ciò che tutti inseguiamo –  garantisce il risultato finale. Ma poi, dentro questo risultato, cosa c’è davvero?

La campana di vetro delle Olimpiadi

Si sono appena conclusi i Giochi Olimpici di Sochi e alcuni interessanti articoli sollevano riflessioni che mi hanno messo sul “chi va là”.

Certo, alle Olimpiadi girano tanti soldi e mai come in questo caso a Sochi. E va pure detto che questi Giochi aldilà di tutte le più fosche previsioni sono stati di successo, molto professionali, molto seri, con servizi, a parte i primi tweet , di tutto rispetto.

Due articoli, tuttavia, aprono una riflessione che mi pare interessante.

Il primo è uscito sulla Neue Zürcher Zeitung e parla di una specie di Truman Show. Era come se, scrive Daniel Germann, ci si trovasse sotto una campana di vetro in cui realtà e illusione si confondevano. Christof Siemes, invece, su Die Zeit, scrive che questi Giochi sono stati davvero poco russi, pur essendo in Russia. Nel bene e nel male.

Io a Sochi non ci sono stata e dunque mi affido a queste opinioni. Ho letto con emozione i tweet e i post di amici che allo spegnimento del braciere erano commossi e già nostalgici. Dunque: nonostante la campana di vetro, l’emozione c’è stata. Ma le analisi portate dai due giornalisti (gli articoli sono in tedesco, per chi conoscesse la lingua, una bella lettura) mi hanno dato come un pizzicotto.

Mi affido allora alla mia esperienza, al mio sentire, e mi rendo conto che forse davvero ci troviamo a una svolta.

Provo a partire dal piccolo, dal mio piccolo di Coppa del Mondo in Val Gardena. La mia squadra lavora con impegno affinché sia garantita la qualità. La domanda naturale che dovremmo porci è cosa significa qualità in un evento. Certo, i servizi devono essere garantiti, gli atleti devono poter gareggiare in sicurezza, la stampa deve poter raccontare le competizioni e trasmettere i reportage, il pubblico deve potersi divertire e mangiare e dormire. Insomma: la macchina deve funzionare.

La storia delle Coppe del Mondo di sci è forse sintomatica di una trasformazione in atto. In origine c’erano gli organizzatori, piccole associazioni appassionate di sport che allestivano una gara di sci. Testavano, sperimentavano, innovavano in assoluta autonomia. Poi il mercato ha iniziato a svilupparsi, sono entrate le agenzie che vendono i diritti di sponsorizzazione e televisivi e la stessa federazione internazionale ha iniziato a strutturarsi, a dettare regole, molto spesso a trasformare in regole le piccole innovazioni portate dagli organizzatori, a, cioè, uniformare il torneo a livello mondiale. Per fortuna, mi verrebbe da dire, certe cose non si possono cambiare e la connotazione localista nello sci è ancora molto forte, anche solo per il paesaggio. La montagna, a differenza di uno stadio, è unica. Anche lo stadio, é vero, lo può essere:  San Siro non è la Allianz Arena, ma la partita filmata dalla TV non cambia: stesse pubblicità, stesse inquadrature, stessa narrazione. Lo sci, per fortuna offre ancora una diversità.

Quale diversità? Le montagne, i dossi sulla traccia di gara, le lingue parlate e i piatti tipici. Tutto qui? Rendere tutte le gare più simili tra loro consente una vendita migliore e consente un management più efficace. Ma in questo modo perdiamo qualcosa della nostra anima?

Scrive il giornalista su Die Zeit:

La perfezione ha il proprio prezzo. L’interno del mondo olimpico sembra sempre più un’astronave che dopo 7 anni di manovre atterra in un pianeta straniero, per starci poco più di un mese e poi ripartire per un nuovo pianeta.

E allora la domanda è questa: siamo arrivati al punto da rendere asettica l’esperienza olimpica? Andiamo lì aspettandoci esperienze olimpiche e cerchiamo queste esperienze e queste esperienze a tavolino ce le fanno vivere? È un po’ come il turista che si aspetta qualcosa di ben definito, che so, il romanticismo della montagna, e noi, offriamo esattamente questo, andando a intaccare il nostro paesaggio con un romanticismo di maniera.

“Forse – scrive Siemes su Die Zeit – il futuro dei Giochi starà nella decentralizzazione e nella digitalizzazione: non una città dovrà convogliare tutto ciò, ma molte diverse città che allestiranno singole competizioni le quali saranno trasformate in un’unica grande unità attraverso le immagini: giochi virtuali, Olimpiadi 2.0.”

Questa idea non è tanto lontana da Wings for Life World Run: un unico evento globale, 40 competizioni, stessa ora, 5 continenti diversi, uno scopo benefico. RedBull in pole position. Un vincitore finale.

È dunque questo il rischio negli eventi sportivi? Cioè: che non importa più dove staremo? Ci sarà una sorta di appiattimento globalizzante per cui saremo tutti uguali e tutti digitali?

Eventi culturali blockbuster

Non solo il grande sport è affetto da questo rischio. Appiattimento e standardizzazione a quanto pare sono diffusi anche in altri ambiti.

Sto leggendo un libro, appena iniziato per la verità, che da subito mi ha acchiappato. Il titolo è Kulturinfarkt, è scritto da tre autori tedeschi – io sto leggendo la traduzione italiana, qualora vi interessi – che condannano l’eccesso di dipendenza dai fondi pubblici nella cultura.

La cultura si sta “eventizzando”. Le istituzioni pubbliche  pagano e questo comporta, scrivono gli autori del libro, un appiattimento, un’omologazione di contenuti.

“Non è poi tanto assurdo concludere che con i finanziamenti statali abbiamo decretato la fine di una produzione artistica e culturale orientate al futuro”.

Il dramma pare essere questo: proponiamo sempre le stesse cose e gli stessi modelli. Il finanziamento pubblico ingloba e pacifica. Ma allo stesso tempo crea emarginazione. Ciò che non è finanziato non esiste, non vale. E in genere si emargina ciò che è “diverso”. E dunque: gli eventi culturali, per sopravvivere, devono omologarsi a un linguaggio accettato e riconosciuto per evitare di sparire?

Mi ha molto colpito – a Torino – vedere fuori dalla GAM (Galleria civica arte moderna) code infinite per assistere alla mostra di Renoir. Nulla di male, anzi: che bello, la gente sta in coda per la cultura.

Ma … ma c’è un ma. Beat Wyss, docente di storia dell’arte a Karlsruhe dice: “Credo (…) in effetti che l’interesse principale risieda nell’esserci stato (…) gli oggetti d’arte funzionano come reliquie.” Cioè vale più il “io c’ero”-  magari con foto su Facebook – che l’opera che si è andati a vedere.

Anche la nostra capacità (o volontà?) di lettura e di esperienza sono indebolite.

E da organizzatori vediamo che Renoir ha successo e allora proponiamo altre 100, 1000 mostre di Renoir, che magari questa volta si chiamano Wharol o Picasso, ma questo non importa. Non cambia. Saranno sempre code infinite di persone che andranno a vedere …. A vedere cosa?

E alle Olimpiadi proporremo sempre più lo stesvo intrattenimento, gli stessi cibi e pranzi, le stesse  feste, la stessa narrazione. Non importa se saremo in Canada o in Russia. E noi spettatori cosa vedremo? Sará come viaggiare con l’Alpitour?

Benchmarking: imitazione o professionalizzazione?

Benchmarking significa “attività continua di ricerca, misurazione e raffronto dei prodotti, processi, servizî, prassi, procedure e operazioni di una ditta con quelli che altre aziende hanno sviluppato, allo scopo di ottenere risultati eccellenti, finalizzati al miglioramento delle proprie prestazioni aziendali e per rendere evidente l’efficacia di determinati investimenti.” (Treccani)

Enrico Menduini, nel suo libretto Entertainment solleva un dubbio non da poco intorno alla mania del benchmarking: in sostanza, dice, si tratta di imitazione, ci si omologa per evitare il rischio di insuccesso. Non si rischia più, non si innova.

Aiuto!

In tutto questo ci siamo noi come spettatori. Sarà omologata anche la nostra capacità di emozionarci?

Olimpiadi globali conformizzate. Digitalizzazione dell’esperienza. Appiattimento della diversità. Eventi culturali in serie. Mostre “Blockbuster”. Imitazione piuttosto che innovazione.

É questo lo stato degli eventi, dei mega eventi oggi?

E’ come se ci trovassimo tra due estremi. Da un lato, gli eventi minori che cercano di barcamenarsi tra dilettantismo (nel senso di assenza di management specializzato) e mancanza di risorse e dall’altro i mega eventi che diventano sempre più uguali a sé stessi e a ciò che ci si aspetta.

E poi ci sono gli eventi di mezzo, quelli per i quali ho spesso lavorato anch’io, che forse sono davvero ancora l’unica isola in cui è possibile trovare un compromesso tra professionalità e diversità.

Questo, lo avrete capito, è un post senza risposta.

Standardizzare significa abbattere i costi. Significa non correre rischi. Significa rispondere a aspettative a loro volta standardizzate da una comunicazione a sua volta appiattita.

Ma gli eventi sono emozioni! Sono persone! Sono relazioni!

Stiamo rischiando di appiattire anche la nostra capacità di emozionarci in modo libero, senza griglie emozionali prestabilite? E ancora: in un mondo che ha creato tutto e di tutto, è ancora possibile essere diversi e innovativi dentro un evento? O alla fine ci troveremo solo ad acquistare format, come il Grande Fratello, e riprodurli all’infinito, togliendo a noi che ci lavoriamo la sfida per il nuovo, e agli spettatori che ci seguono, lo stupore della sorpresa?

 
Immagine: Something Wrong by Chloe Newman, 2012