Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d’inchiostro La “poesia onesta” di Fabrizio De Andrè

Creato il 14 aprile 2015 da Lucastro79 @LucaCastrogiova
Quello sporco ultimo mito

Published on aprile 14th, 2015 | by radiobattente

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Non sapremo mai se la storia di Faber fu davvero sbagliata come quella della sua canzone.
Fu certamente complicata, sputtanata e complessa come tutte le sceneggiature delle vite dei geni più grandi. Eppure, fu proprio la sua vita la musa ispiratrice più importante di quei versi che hanno saputo riprendere e raccontare esistenze mai troppo “normali”.
Versi che hanno sempre dipinto persone e mai personaggi, emblemi di virtù rovesciate, puri antieroi in eterna lotta contro le convenzioni dominanti e grette della società benpensante biasimata e osteggiata personalmente da De Andrè. La continua ricerca dell’emarginazione, l’esclusione assoluta da una realtà sociale rigidamente etichettata, divenne la sua personale bandiera, il vessillo con cui cavalcare la storia lasciando il proprio segno.
Le figure nude e crude, rievocate attraverso indulgenti spennellate di autenticità, risultano assolutamente senza tempo e benevolmente estromesse da questa tormentata lotta.
La vera realtà sociale dell’uomo, residente il più lontano possibile dai valori cardine di quel tempo, come la famiglia o la classe sociale dominante, non è da ricercare all’interno di un partito politico, seppur rivoluzionario. Ecco allora che una bettola o il letto di una prostituta si disvelano i luoghi in cui la natura umana si presenta nella sua forma più pura e più onesta.
De Andrè si fa portavoce di una pietà spassionata verso gli umili che si spoglia di qualunque forma di giudizio, raccontando l’umanità di ognuno di loro, tracciandone i tratti uno ad uno. Ecco allora che il marginale, l’emarginato, il solo, riesce a conservare una purezza antica e immutata attraverso le diverse fasi di sviluppo dell’uomo.

Faber disprezzò le opinioni dominanti, spesso di sinistra, di quei travagliati anni ’70, persino all’interno dei circoli borghesi da lui frequentati. Prescindendo dalla natura estremamente stalinista del PCI di Genova, certamente risoluto nelle posizioni, De Andrè si autoescluse con decisione dal movimento, in fede alla propria convinzione che qualunque idea, se condivisa da troppe persone, rischia di divenire poco credibile. Nell’epoca impietosa delle lotte, la sua poetica fu tacciata di mero decadentismo disfattista, esplicato da un’entrata in scena sempre e solo al momento della sconfitta e dall’accurata descrizione della ritirata. Lo scherno di De Andrè, prima dell’esplosione del movimento di lotta, vede come protagonista il perbenismo borghese, smentito dalla doppia morale sessuale e dal ruolo giocato dalla prostituzione. Dopo la turbolenza del ’68-’75, il suo occhio clinico volge lo sguardo oltre e inizia a mettere a nudo le fondamenta della società stessa. Canta delle rivoluzioni alle rivoluzioni ormai tramontate.

L’anarchia di Faber germoglia nella ribellione giovanile alla figura paterna, primo simbolo di un potere dogmatico da rovesciare. Ed è proprio questa anarchia individualista a collimare perfettamente con tutte le componenti della propria esistenza. Il borghese diviene essenzialmente un anarchico che accetta suo malgrado le condizioni limitanti per salvarsi la pelle (magari dall’operaio). Il sottoproletariato, per natura stessa, resta anarchico. I soggetti in questione, dunque, per ragioni assolutamente differenti, rimangono fedelmente ancorati alla propria condizione esistenziale, biasimandone talvolta alcuni aspetti.

Per De Andrè anche l’amore diviene rivoluzione: consapevole solo a occasione perduta. E tra le righe, solo un caos confuso.
E se la morale religiosa è sbeffeggiata impietosamente, la figura mitologica di Gesù, di contro, diviene simbolo di un’autorità morale che la chiesa non possiede assolutamente. Gesù Cristo rimane “l’unico vero rivoluzionario della storia”, figura fantastica, appartenente al Mito (non alla Storia). Da ciò, si desume in maniera lineare la totale assenza di rivoluzionari veri nella Storia, chiudendo coerentemente il discorso ideologico. Ecco dunque che Faber diviene religioso nel senso del classico panteismo della ragion sufficiente (mi sento parte di un tutto che deve avere una logica).

L’universalità dei suoi versi, le scene sapientemente descritte attraverso poche e precise parole, rende l’espressività di De Andrè unica all’interno del panorama cantautoriale.

Il pessimismo cupo permeato di tristezza diviene tratto distinguibile dell’opera di De Andrè, spesso ingiustamente additato all’alcol. In realtà, fu proprio l’alcolismo a elaborare gli aspetti onirici e metafisici dei testi e della produzione del cantautore.

Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta
poi ci mandarono a cagare.

Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi.

Voi avete voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo.

 E scrivere in una domenica come questa della poesia di Faber è un po’ una Domenica delle Salme, in cui gli addetti alla nostalgia accompagnano tra i flauti il cadavere di Utopia.

Ilaria Coppolino

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