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Commenti su La barca e la vela di Di gioia, di dolore, di immenso amore | scritture

Da Luciamarchitto

Commenti su La barca e la vela di Di gioia, di dolore, di immenso amore | scrittureE’ un corridoio molto lungo, molto basso, privo di finestre, si arresta su due porte a vetri da cui la luce che entra  non riesce a penetrare fino in fondo  la penombra del corridoio. 
Pare che la luce laggiù serva solo per dare forma al buio in mezzo al quale le persone sono in attesa.
Da qui, da questa distanza li vedo arrivare.
Lui avanti. Lei dietro.
Lui è più largo che alto, porta una maglietta di cotone bianca slargata, la parte anteriore si solleva sulla pancia e penzola. Cammina con le gambe leggermente aperte e la schiena ricurva verso l’interno, spalle e sedere sporgenti verso l’esterno per controbilanciare il peso della pancia. I piedi enormi calzano sandali sdruciti e non porta calze. La faccia ha un colorito bianco come solo certi malati hanno.
Lei è alta, magra, porta una maglietta gialla che rende più nero il nero della sua pelle, che rende più nero il nero dei suoi capelli racchiusi in trecce sottilissime come solo il suo popolo sa fare. 
Cammina lentamente,  lui  ogni tanto si ferma e l’aspetta.
Lei parla un italiano stentato, lui per aiutarla suggerisce frasi che si rompono nell’agitazione che lo attraversa, lei si riprende la parola stentata con un sorriso. Il sorriso inganna l’osservatore distratto che coglie la bellezza e non la stanchezza della pelle  che solo certi malati hanno.
Si fermano davanti alla porta chiusa dell’ambulatorio.
Aspettano.
In piedi.
Le sedie sono tutte occupate.
Poi stanchi di stare fermi  cominciano a passeggiare per il corridoio, lui avanti, lei dietro.
La maglietta balla sulla pancia, le trecce sono immobili.
Una porta si apre, una persona si alza  ed entra,  lui vede la sedia libera, affretta il passo, la maglietta sembra scossa dal vento, lei lo segue, non riesce a camminare veloce, resta indietro, lui arriva, conquista la sedia, si siede, la sedia scompare sotto il suo corpo, intanto arriva anche lei, lui allarga le gambe, lei si mette in mezzo, dritta, lui accosta i piedi imprigionandola,  lei allarga le braccia, si abbassa e lo abbraccia.
Da qui, da questa distanza li vedo, vedo quella barca che si è formata laggiù sulla sedia ai bordi della penombra, là dove la luce si ferma: il  corpo largo sui fianchi  sorregge l’albero della vela che si apre per accogliere il vento, insieme navigano nel corridoio scuro, i movimenti delle persone che si affannano intorno paiono onde burrascose nel mare dell’aids.
Da qui, da questa distanza li guardo e li vedo ondeggiare, innalzarsi e abbassarsi, carichi di paura, pieni di speranza, temerari e cauti, eroi dell’abisso che avido tenta di inghiottirli, di sommergerli.
Il vento pare quietarsi, la vela ondeggia piano.
Un canto si leva alto e si diffonde.
E’ un canto disperato e felice.
Un inno alla vita.
Un urlo alla morte.
Un morso alla sorte.
Un bacio al dolore.
Un inno alla gioia.
Struggente.
La barca abbracciata al suo albero dispiega la vela e si allontana.


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