Confesso che quando mi è stato proposto di scrivere dei monologhi per una rappresentazione teatrale sul risorgimento sono stata un po’ scettica, ricordavo molto poco quel periodo storico, quando a suo tempo lo studiai non mi aveva entusiasmato, quando poi mi è stato detto che dovevo occuparmi delle figure femminili l’unica che mi si è affacciata alla memoria è stata Anita Garibaldi, anche se, a dire il vero, ricordavo solo il nome. Quando poi ho cominciato a cercare documenti e a leggere le storie di Anita, di Cristina, di Enrichetta Pisacane e di altre donne che parteciparono attivamente al Risorgimento italiano ne sono stata piacevolmente affascinata.
Monologo liberamente ispirato alla figura di Cristina Belgioioso di Lucia Marchitto
“La maldicenza”
Roma, 27 aprile 1849
Mentre poggio il cappello sul tavolo mi chiedo se verranno, se risponderanno all’appello, confido nel cuore delle donne, confido nella loro risolutezza, e so che loro verranno. Busseranno alle nostre porte e offriranno quello che possono, come possono. So che loro verranno consapevoli della fatica che le aspetta e di cui non sentiranno il peso, animate dalla volontà di far parte a questo grande cambiamento, sopporteranno la maldicenza di chi le vuole rinchiuse nelle stanze a ricamare merletti.
E’ da tempo che ho abbandonato l’ago pei merletti usandolo, nel cuore di Parigi, per cucire lo stendardo della fratellanza da mettere sul petto, per cucire questa bandiera di libertà.Mi tolgo la cappa.
Appoggio il volantino sul tavolo, ormai è affisso su ogni porta di Roma. (Manifesto)
Roma, 28 aprile 1849
Stanno arrivando, le ceste piene di biancheria e di filacce.
Le guardo.
Guardo le loro facce.
I loro vestiti.
Le loro mani.
Stanno arrivando
In vestiti
D’ordinanza
In vestiti d’eleganza
Sono donne
Madri
Mogli
Sorelle
Figlie
Sono donne di Roma
E sono pronte
Per arginare il sangue
Per lenire ferite
Per curare il male di ogni uomo
Perché ogni uomo è il padre,
ogni uomo il marito
ogni uomo il figlio
il fratello, l’amico, l’uomo amato
e anche il nemico
perché nella sofferenza esiste soltanto l’uomo
Roma, 29 aprile 1849
Ora le filacce bianche si tingono di rosso.
Il sangue arriva da tutte le parti.
I feriti giacciono storti o smembrati, sofferenti.
Le donne arrivano, li sollevano, li lavano, li fasciano.
Tutte ugualmente veloci
Tutte ugualmente capaci.
L’arte del fasciare è arte antica per la donna.
Li sollevano, li mettono sulle ambulanze, attente agli ordini ricevuti, questo in quell’ospedale, questo in quell’altro.
Queste donne che oltre alla fatica affrontano l’ingiuria, la maldicenza.
Lavorano giorno e notte e nella notte la luna illumina il pallore dei loro volti.
E gli occhi sembrano più grandi e più profondi, tesi nello sforzo di tenerli aperti, ad assolvere il compito assegnato.
Queste donne sanno che oltre al tampone, alla sutura, al malato occorre il sorriso e con esso la speranza.
Tuonano gli uomini nel timore di dio, perché hanno paura della bellezza più che delle baionette e dei pugnali, hanno paura della bellezza e di questo volto che brilla nel chiarore della luna, ma più di tutto ancora hanno paura di quello che queste donne sanno fare e che non è solo il fasciare e il curare giardini, perché sanno che queste giardiniere hanno copiato dalla rosa non solo la bellezza ma anche la sua arma di difesa: la spina infilando pugnali nelle giarrettiere. Queste donne che sanno organizzare non solo case e famiglie ma ambulanze, ospedali, sanno organizzare la vita senza che un padre, un marito, un fratello, un figlio, lo faccia al posto loro.
Tuonano gli uomini nel timore di dio.
Come allora racchiudo il dolore sotto il cappello e dentro la veste, e vado avanti.
Come allora le lacrime scorrono nel silenzio, lacrime di dolore e di rabbia per non aver potuto assistere la mia cara amica morente, Giulia Beccarla, madre di colui che scrive sì bene, di colui sul cui affetto avevo contato.
Farò come allora, convertirò in indifferenza il risentimento perché la cura del mio paese è la cosa cui più tengo.
Tuonano gli uomini nel timore di dio, lanciano strali da giornali e da carte che non tutti sanno leggere, non tutti per ora, ma domani.
Hanno paura del domani gli uomini di dio, di quando non solo la falansterio di Locate sarà una comunione tra uomini e donne tutti uguali, realtà dove ogni individuo potrà scegliere il proprio lavoro, la propria vita.
Hanno paura del domani gli uomini di dio, di quando ogni uomo e ogni donna conoscerà l’arte dello scrivere e del pensare.
Qualcuno sa già la rivoluzione che avverrà e teme per sé e non per altri, e io so cosa bolle nel suo core, la sua perplessità, la sua paura, e che si troverà a dire e a scrivere:
“Quando tutti saranno dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”
La mancanza de suoi privilegi è questo quello che teme l’uomo di dio, lo scrittore.
Ma più di tutto fan paura le donne.
Da qui io le guardo: farfalle che si posano sulle ferite degli uomini, instancabili, tenaci, piene d’amore.
La luna, questa meravigliosa luna romana, le illumina il volto.
Hanno paura della luna, gli uomini.
Di quell’ostia bianca appesa nel cielo scuro della notte.
Di quell’ostia bianca che non possono toccare, che nasconde altri mondi, altre cose, misteri che non riescono a svelare.
Hanno paura della luna gli uomini,
della luna e delle farfalle perché non le possono (sanno) afferrare.
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