
Personalmente, e proprio per questo, ho sempre ritenuto Compagni di Scuola (1988) di e con Carlo Verdone un cult, se non uno dei migliori polpettoni agrodolci della commedia all'italiana che il regista capitolino sia mai riuscito a mettere in forno.
Un piatto ricco, con un cast di stelle e stelline tutte nostrane che si danno appuntamento in una sontuosa villa poco fuori Roma dove Federica Polidori (una Nancy Brilli ancora giovanissima ma invecchiata di una decina d'anni per il ruolo) attende la mitica rimpatriata della sua classe, in un anonimo sabato pomeriggio, 15 anni dopo la maturità. Ma sono davvero tutti maturati i suoi ex compagni di liceo? Difficile rispondere a una domanda che si ripropone praticamente lungo tutta la festa e sino alle prime luci di un'alba domenicale quando coloro che hanno superato la reunion - dopo vari abbandoni notturni più o meno burrascosi - si diranno addio per ritornare ognuno alla propria "vecchiaia" di sempre con sempre meno certezze. A cominciare proprio da Federica che ha spedito gli inviti, che sembra vivere in una casa da sogno e che apre le porte ai vecchi amici infelice nel cuore ma con un sorriso di circostanza. Comincia così un pirotecnico carosello di ruspanti caratteristi in mezzo a canzoni revival degli anni '60 e '70 (da Steely Dan ai Trolls a I Giganti a Mama Cass per i titoli di coda ai The Archies per quelli di testa) e psicodrammi esistenziali che di quell'innocenza scolastica che si sta cercando di far rivivere non sono che un lontanissimo ricordo. Fra tutti, il personaggio più incasinato - nemmeno a dirlo - è quello dello stesso Verdone in arte Piero Ruffolo detto "er patata" per via della sua aria impacciata e bonaria. E forse il suo è anche il personaggio che meno è cambiato dai tempi delle superiori, sempre alle prese con gaffe improbabili, figuracce, telefonate alla Franca Valeri e situazioni tragicomiche tra una famiglia che ora lo opprime e una giovane allieva nella quale cerca respiro.Ma Verdone se la deve contendere con una superba Athina Cenci, la psicoterapeuta Maria Rita Amoroso che dispensa mal volentieri e cinicamente pillole di psicologia pret à porter e alla quale tutti ricorrono come fosse l'unico barlume di razionalità in una comitiva ormai allo sbando. La parte le valse un David di Donatello, e non per nulla.



"Non voglio diventare come voi" sussurra con un filo di voce a Verdone mentre lascia la festa accompagnata da Athina Cenci, unico baluardo di raziocinio che la possa ricondurre sana e salva fino a casa.
Il senso di tutto sta nella famosa scena dell'appello dove Gioia, sbeffeggiando con una perfetta imitazione la prof. dall'accento pugliese ordina a ciascuno dei presenti: "Specificare professione, stato civile, traguardi raggiunti nella vita e anche quelli mancati".
Per quanto sia a tratti come la vita, alternando momenti di profonda amarezza a quelli di gioiosa spensieratezza intorno a un piano, amo questo film e lo riguardo sempre con estremo piacere, a tratti commuovendomi.
"E' la fiera delle vanità" direbbe William Thackeray. "E' una copia de Il Grande Freddo" ribatterebbe Lawrence Kasdan ("Il Grande Freddo di Vigna Clara" aggiungerebbe Christian De Sica). E comunque la si voglia mettere, è la sconfitta di un'ideale di perfezione e di speranza che si coltiva inevitabilmente tra le pareti di un'aula senza tuttavia perdere la capacità di riderci sarcasticamente sopra.







